La vita degli altri

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Nella foto Marcella Gori che mi racconta dell’uccisione di suo padre e della sua famiglia a Pratale e mi mostra le foto. Si veda il mio romanzo “Prima che venga giorno” e il saggio “La strage di Pratale” scritto con Francesco Catastini.

 

Primo Levi diceva: “Sono uno a cui si ci racconta.”

So cosa significa. Questa affermazione mi riguarda da sempre.

Siamo sulla spiaggia di Follonica, luglio, il vicino d’ombrellone mi chiede se gli faccio dare un’occhiata al giornale. Ci scambiamo qualche frase di circostanza. Pochi minuti dopo mia moglie mi vede camminare sul bagnasciuga con il signore accanto che muove le mani e parla. A pranzo accennerò al fatto che è un tassista di Milano, ha un mutuo sulla casa di 600 euro al mese, una prima moglie, qualche problema con il ventricolo destro…

Lei mi guarda stupita: «Ma chi ti ha detto tutte queste cose?»

Rassegnato rispondo: «Lui.»

A volte può bastare che chieda l’ora a un’anziana signora alla fermata del tram per ritrovarmi nel dopoguerra, in una lite condominiale, fra i suoi gatti da curare… Mi succede di continuo. Non posso farci niente. Ancor prima della scrittura e del disegno, questo è il mio vero grande-piccolo talento. Inutile chiedermi: «Ma come fai?» Davvero non lo so, succede e basta. E’ come se gli altri intuissero che so semplicemente ascoltare, che conserverò la loro storia in un angolo della memoria, che magari la racconterò un giorno. Detesto il navigatore satellitare e adoro chiedere informazioni, fermare le persone, incontrarle in questa vita, anche solo per un istante. Può capitare allora di ritrovarsi a camminare per una Lucca moderna e dinamica e di colpo, con la scusa di chiedere il nome di una via, di entrare dentro alla bottega di un anziano biciclettaio. È rimasta tale e quale a quelle della mia infanzia: un passo indietro nel tempo. Basta dire: «Che bella!» per ottenere in cambio la sua storia e scoprire che è una storia di orgoglio e di passione, di figli da crescere, forature da rattoppare, amici da incontrare alla sera.

Avevo quindici anni quando mi fermai a parlare con Antonio nel piccolo parcheggio condominiale. Parlavamo del tempo che si rannuvolava ed eravamo quanto di più lontano potesse esistere: un anziano e un adolescente. Ma la nostra invisibilità reciproca si dissolse d’un tratto e mi ritrovai ad ascoltare la sua storia, mi ritrovai dentro a un lager nazista con altri ragazzi italiani. La gola mi si fece piccola ascoltando delle loro sofferenze. Erano 600.000 i militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e più di 70.000 non tornarono mai più a casa. A scuola non me ne aveva mai parlato nessuno.

Anni dopo all’università, raccolsi la storia di Antonio in un piccolo libro-intervista e dopo, tante altre storie di persone come lui. Imparai ad ascoltare, a fare le domande giuste al momento giusto, come piccoli colpi di remo nel lago placido del racconto. Scoprii che ci si può raccontare attraverso le storie e la Storia. Grazie ad Antonio sollevai gli occhi dal mio ombelico e scoprii la vita degli altri. Sì, mi piace dire che sono diventato scrittore quando ho scoperto la vita degli altri.

 

Le piacerebbe scrivere un best seller?

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Quando incontro i miei giovani lettori nelle scuole, c’è sempre qualcuno che tira fuori una parola magica: successo. Alcuni pensano che io sia uno scrittore “famoso” giacché sono lì a parlare con loro. Altri, più pratici, intuiscono che per essere veramente famoso dovrei essere conosciuto da tutti e aver venduto tanti libri. Sì, per essere famoso avrei dovuto scrivere un best seller!
Così mi fanno domande del tipo: «Le piacerebbe scrivere un best seller?», oppure, «Cosa farebbe se scrivesse un libro come Harry Potter e diventasse milionario?”
Sono domande che fanno sorridere, alle quali rispondo con una battuta e un po’ di autoironia.
L’altro giorno però un ragazzo mi ha chiesto: «Perché non prova anche lei a scrivere una storia di maghi, o di vampiri?»
Certo potrei farlo, potrei benissimo scrivere una storia di maghi o di vampiri. Sono argomenti di moda e ciò mi darebbe l’ipotetica possibilità di avere più successo.
E’ indubbio che molti fanno proprio questo: si rendono conto che un tema va alla grande e ci salgono sopra. Come spiegarsi altrimenti il proliferare di libri su questo o quell’argomento?
Ci sono però tanti altri scrittori che non lo fanno e seguitano a scrivere le loro storie. Storie dove maghi e vampiri, purtroppo o per fortuna, non c’entrano nulla.
Quegli scrittori, come me, pensano che ognuno debba raccontare le proprie storie rispettandole. Pazienza se non ci porteranno lontano, se non sono storie da “ricchi e famosi”. Quelle sono le nostre storie, la nostra voce è maturata per raccontarle, ci sono dentro i nostri pensieri e le nostre emozioni. Nelle storie che raccontiamo c’è un pezzo importante della nostra vita, di quello che siamo e che abbiamo da dire, dei nostri ricordi e del nostro modo di vedere il mondo.
E’ vero che tutti quanti intorno vogliono darci a intendere che avere successo significhi essere ricchi e famosi e apparire in televisione. Ma non è così, e tanto meno è così per chi scrive.
Un vero scrittore se ha qualcosa da dire va dritto per la sua strada e non si lascia distrarre dalle mode del momento. Lui ha delle storie da raccontare e le racconta ben sapendo che se tradisse quelle storie tradirebbe se stesso. A che varrebbero allora i soldi e la fama?
Forse diventare scrittori significa questo dunque: avere qualcosa da dire e trovare la voce per dirlo. Significa capire quali sono le storie che vogliamo narrare. Una volta che l’avremo capito saranno loro a condurci per mano, non importa dove.

Se Cristo torna da sé in quest’epoca di bindoli

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Ho ritrovato un vecchio articolo di quando andavo spesso a ragionar con i vecchi e raccogliere storie.

Molte volte dietro i detti e i proverbi vi sono aneddoti e storie che, almeno un tempo, facevano sorridere. Fra queste ce n’è una ambientata nel cuore del Chianti che riguarda il paese di Lamole e i lamolesi. Usava un tempo e usa ancora per la festa del Corpus Domini, organizzare grandi processioni di fedeli delle varie contrade che pregando e cantando accompagnavano i propri santi o il proprio cristo di legno scolpito e dipinto fino alla chiesa scelta per la messa,di solito la più importante del comprensorio.
Come d’usanza al termine della messa era offerto un rinfresco ai portatori delle insegne, vale a dire a coloro che avevano il compito, talvolta molto faticoso per l’imponenza delle statue, di alternarsi e darsi il cambio nel portare a spalla queste ultime, e issati su lunghi pali, gli stendardi e i lanternoni.
Sembra che una sera non ben precisata di molti anni fa, al termine della funzione, ad accompagnare il pane e il prosciutto del rinfresco ci fosse un vino rosso e gentile che andava giù come l’acqua. I portatori della croce con il Cristo, che si alternavano nello sforzo, si resero conto di aver esagerato a metà della strada del ritorno. A Lamole mancava ancora tanta strada, la testa girava e le gambe si facevano molli sotto il peso ammonitore del crocifisso.Presto le richieste dei cambi si intensificarono e giunti giù nel borro del torrente Antìna, uno dei quattro portatori, forse scoraggiato dalla risalita, si rifiutò categoricamente di dare il cambio.
– Portalo te!
– No! Io l’ho portato anche troppo: fallo portare a lui!
– A me? Io non lo porto davvero. Son quello che l’ha portato più di tutti. Per me vu lo portate voi, eppoi… io son briaco!
– Briaco te, briaco io. Per me resta qui!
Insomma, la discussione, animata dal vino, si infiammò a tal punto che divenne punto d’onore non portarlo e pretendere che lo portasse qualcun altro.
Mentre i quattro cantando a squarciagola procedevano barcollanti verso i loro letti, poggiato su una macchia di rovi sul greto dell’Àntina il povero Cristo giaceva abbandonato con gli occhi rivolti al cielo.
Quando dopo alcune ore di sonno i fumi dell’alcol iniziarono a diradarsi e i portatori si risvegliarono, il senso di colpa si impadronì di loro e chiamandosi l’un l’altro si ritrovarono in piazza a notte inoltrata.
– Ragazzi! S’è lasciato il Cristo nell’Àntina. Bisogna andare a ripigliarlo!
Smaltita la sbornia, di corsa come gli apostoli verso il sepolcro,i nostri non rimasero meno sbalorditi degli evangelisti scoprendo che il Cristo non c’era più.
A lungo lo cercarono finché desolati ritornarono intristiti dal loro sacrilegio, verso Lamole. Lì giunti, sfilando di fronte alla chiesa mentre già albeggiava, furono colti da un presentimento ed entrarono. Al suo posto, issato sopra l’altare, c’era il Cristo illuminato appena dalla luce del mattino che filtrava dalle
bifore laterali.
– L’è tornato da sé! – esclamarono sbalorditi i portatori e si gettarono in ginocchio a pregare.
Che davvero il cristo fosse tornato da sé portandosi la croce a spalla o qualcuno l’avesse trovato e riportato in chiesa, non ci è dato di sapere. Sappiamo invece che da quella volta fra gli abitanti dei paesi vicini che seppero della storia, cominciò a diffondersi un motto poco lusinghiero per la reputazione degli amici di Lamole che, tolti i protagonisti della nostra storia, non avevano e non hanno alcuna colpa. Il motto che veniva usato in occasione di un torto subito, di un raggiro
o di una parola mancata, era questo:
– Bindoli dei lamolesi, lascionno il Cristo nell’Àntina!
E’ appena il caso di ricordare che il termine bindolo vuol indicare una persona di cui non ci si può fidare, che abbindola o che non mantiene la parola.
Bindolo infatti è detto l’arcolaio o anche la pompa azionata da un somaro che gira su se stesso e il meccanismo di alcune presse a vite. Da qui abbindolare, raggirare, girare intorno a qualcuno per ingannarlo.

Perseguitati

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In questi giorni ripenso spesso a Lea e Miriam, due bambine salvate, insieme a un’altra loro sorella, da Amina e suo Marito Umberto tanti anni fa, vicino casa mia. E’ una storia che non ho mai scritto e non scriverò mai. Ci ho provato, ma dopo averla raccontata tante volte ai ragazzi, ho concluso che ci sono storie che non possono essere scritte, ma solo raccontate. Questa è una di quelle.
Incontrai Lea e Miriam Della Riccia con i loro mariti a Montecatini terme in occasione del conferimento del riconoscimento di Giusta fra le Nazioni ad Amina e suo marito Umberto, era il 2004. Mi accolsero nel salottino di un grande hotel in Montecatini alto. Miriam lasciò raccontare alla sorella Lea: “E’ lei che racconta!” disse. Conservo anche un video VHS di quell’intervista, ma non ho mai avuto bisogno di rivederlo perché la loro storia mi si è scolpita in testa così come me la raccontò quel giorno Lea.
Quel giorno mi domandarono anche come mai c’era questa ostilità degli italiani nei confronti dello stato di Israele, perché mai fosse così diffuso quello che percepivano come un sentimento filopalestinese. Mi dissero della loro sorella forse, o di un altra ragazza della loro famiglia, non ricordo con esattezza, che era morta durante il servizio militare, obbligatorio, lì da loro, anche per le donne. Di un Paese in cui hai paura a prendere l’autobus e a mandare i figli a scuola. Paura di una telefonata che ti annunci che non torneranno mai più. Non seppi cosa rispondere loro. Non avevo voglia di mettermi a parlare della sinistra italiana e di fare analisi sociostoriche più o meno strampalate. Capii però che quella era una domanda rivolta a me, a una persona a cui stavano consegnando, regalando, un pezzo della loro storia. Era come se mi domandassero, fra le righe, se anche io ce l’avevo con loro. C’era una profonda tristezza e apprensione negli occhi di queste persone che avevano perso i genitori e una parte della loro famiglia e del loro mondo ad Auschwitz.
“Sei nostro amico o no? Sei con noi o contro di noi?” questa è la domanda che, più o meno coscientemente, si pongono sempre i sopravvissuti.
Non dimenticherò mai quello sguardo, quel tentativo di capire e cogliere nell’altro il pregiudizio. Ci sono vite, esistenze, per cui la persecuzione non ha mai fine, per le quali la sensazione di starsene tranquilli, in pace, a casa propria sembra un sogno irraggiungibile. Persone che hanno provviste per anni nella dispensa, piani di fuga pronti, progetti mentali di come farebbero a bere o a nascondersi o difendersi in casa propria ricavando anfratti fra due pareti. Persone che vivono con la paura che accada ancora. E’ la stessa paura dei palestinesi sotto le bombe anche se è più difficile vederla. E la paura, si sa, fa vivere male ed è un cattivo consigliere. La paura impedisce la pace, alimenta l’odio, l’eccesso di reazione sul quale contano coloro che vivono e hanno un ruolo solo fino a che ci sarà paura e guerra fra questi due popoli. E intanto a morire e ad aver paura, da entrambe le parti, sono i civili, i padri e soprattutto le madri, che vorrebbero solo vivere tranquille e crescere bambini che non si sveglino piangendo la notte e non rischino di essere uccisi dall’odio che divide quella terra.

Il bambino scarafaggio

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Di fronte alla morte di un bambino, di un solo bambino, si dovrebbe farla finita, proclamare lutto nazionale da entrambe le parti e giurarsi reciprocamente di non farlo mai più. Ma così non è fatto l’uomo, la colpa è degli altri e i leader dormono tranquilli. Dormono tranquilli? Certo, perché non tutti i bambini sono uguali. Una cosa sono i nostri bambini e una cosa i bambini degli altri. Chi non ha sperimentato, quell’impulso profondo che colpisce le madri quando dividendo una torta danno, quasi casualmente, la fetta più grande al proprio figlio? Oppure no, la danno all’ospite, il che è lo stesso frutto della reazione a quell’impulso, ostacolato con la ragione. Chi dovendo scegliere chi salvare, salverebbe il figlio di un altro e non il proprio? Neanche per le maestre i bambini son tutti uguali, e quanto si arrabbiava mio figlio per le ingiustizie e le preferenze. Ma qui si va oltre. Qualcuno ha accostato infelicemente le foto dei bambini ebrei con le mani alzate a quelle dei bambini palestinesi uccisi. Accostamento infelice, non rigoroso, storicamente sbagliato. Eppure, nel nazista che uccide il bambino ebreo e nel soldato israeliano o nel militante arabo che uccide il figlio degli altri, il futuro degli altri, c’è la medesima idea di fondo: quel che ho ucciso non era un bambino come i miei, era un bambino del nemico, un topo, uno scarafaggio, una peste da eliminare con ragione e senza rimorso dalla faccia della terra.
Nel caso degli israeliani non può non sbalordire che a sparare sui civili e i bambini siano i figli e i nipoti di coloro che (alcuni ancora vivi) per miracolo sfuggirono al medesimo odio razzista, con le debite differenze imparagonabili di dimensione e logica, naturalmente. Il risultato finale, la morte del bambino scarafaggio, è comunque molto simile, direi lo stesso.
E adesso occorrerebbe una bella chiusa efficace, magari di speranza a questo mio ragionamento. Purtroppo però non ce l’ho, né voglio avercela. Cerco solo solo di non vedere scarafaggi nei figli degli altri, più di quanto non li veda nei miei.