LA PICCOLA STRANIERA

(foto scaricata da http://rete.comuni-italiani.it)

Gli altri non la vedevano. E se una cosa non la vedi non puoi farci niente, è come se non esistesse. Inutile affannarsi a spiegare, descrivere, indicare: non serve proprio a nulla. Ma io la vedevo eccome, e questo è quello che importa. Non so da dove venisse, ma di certo veniva da molto lontano. La prima volta che la vidi fu in un pomeriggio di primavera mentre da casa della zia guardavo fuori dalla finestra, vicino alla cancellata che separava il nostro giardino da quello della signora Rita.
Avrà avuto la mia età ed era solo una bambina bionda – il volto serio e bellissimo – impegnata ad allineare piccoli sassi grigi sull’orlo della fontana. Le fronde verdi si stemperavano in quel riflesso di luce e i pesci rossi guizzavano di tanto in tanto alle sue spalle in cerca di insetti. Nell’aria l’odore stucchevole della siepe di gelsomino, bianca come un velo di sposa. Potete non credermi se volete, forse siete fra coloro che credono solo in ciò che vedono e possono toccare e, allora, è inutile che seguiti a raccontare. Ma se invece sapete anche voi il segreto di piccoli passi sulla neve e avete sognato almeno una volta nella vita gli occhi di quella civetta che in una notte di luna cadde dal camino e volò in casa vostra… Se l’ombra di quell’ala vi ha sfiorato e non siete più certi che tutto inizi e finisca con le nostre povere ossa… Se è così, allora, forse vale la pena di raccontare.
Ero molto piccolo e stavo dalla zia perché mia madre era all’ospedale. La notte sognavo la sua vestaglia rosa sul marmo di una tombini una note di pioggia e piangevo, e pregavo sommessamente, perché temevo che non tornasse più a casa. Stefano abitava nello stesso palazzo della zia e veniva a giocare con me quando ero da lei: era il mio migliore amico.
Guardai dalla finestra mentre disponevamo i soldatini verdi sull’impiantito macchiato di cinabrese e di nuovo la vidi.
«Nel giardino della signora Rita c’è una bambina» gli confidai.
Lui si alzò per guardare e mi chiese: «Dove?»
Gliela indicai, seduta fra le lame di luce polverosa che penetravano fra le foglie del mandorlo in fiore. Aveva il vestito bianco e guardò verso di noi; affondando nei nostri i suoi due grandi occhi grigio cenere.
«Non vedo niente!» mi disse Stefano. «Non c’è nessuna bambina. Mi stai prendendo in giro!»
E allora capii che nessuno poteva vederla tranne me. Appena Stefano fu richiamato dalla madre per la merenda scesi le vecchie scale di pietra fresca e sbucai nel giardino.
Lei era ancora lì e mi guardò senza dire niente. Mi avvicinai vincendo la mia timidezza.
«Ciao!» le dissi e pronunciai il mio nome.
Mi sorrise, con le labbra fini, il volto macchiato da leggere efelidi, i capelli d’oro come quelli di un angelo. Raccolsi da terra un ciottolo liscio e tondeggiante, lo bagnai nella fontana dei pesci rossi e sedendomi sul bordo di fronte a lei lo disposi in fila accanto ai suoi.
«Come ti chiami?» le domandai con un sussurro, temendo quasi che svanisse se avessi alzato troppo la voce.
«Vera» mi disse, e la sua voce profumava di petali di rosa appassiti.
«Dove abiti?» le domandai.
«Abitavo qui» mi disse indicando la villa della signora Rita. «Ma da oggi se vuoi starò sempre con te. Vuoi giocare insieme a me?»
«Sì!» le risposi, e fino alla fine dell’estate giocammo nel giardino io e la piccola straniera. Alle volte lasciavo Stefano e gli altri da soli e con una scusa correvo fino al giardino a parlare e a giocare con Vera. Raccoglievo le primule per lei all’inizio della primavera. A volte la trovavo seduta sulla poltrona della mia camera al mio risveglio e parlavamo del più e del meno. Anche di notte sentivo la sua presenza e non avevo più paura. Compariva quando meno me l’aspettavo, quando più ne sentivo il bisogno.
«Da dove vieni?» le chiesi una volta.
Mi guardò con un’ombra di tristezza negli occhi.
«Da un’isola di pappagalli e di pirati, forse, e comunque da un paese lontano».
Con gli anni Vera iniziò a comparire sempre più raramente. Quando cominciai ad andare a scuola e imparai a leggere, a scrivere e a fare di conto mi scordai quasi di lei e, infine, non fui più in grado di vederla e la dimenticai.
L’altra sera però, a cena da mia madre con i miei figli, lei ha detto loro vedendoli giocare: «Bella cosa che siete in due. Vostro padre quand’era piccolo si sentiva così solo che si era fatto un amico immaginario. Ci parlava a pomeriggi interi e alle volte faceva impressione starlo a sentire».
Mi sono alzato, in preda a un subitaneo disagio e sono andato verso la finestra sul retro. Ho poggiato la fronte già segnata da rughe contro il vetro scorgendovi il riflesso della mia barba brizzolata e dei miei occhi da cane triste. Poi ho guardato giù verso gli orti di quartiere ricavati fra l’autostrada e i condomini della 167, con i loro capanni di lamiere arrugginite e le distese di cavoli patetici. Là, per un attimo, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime, mi è sembrato di scorgerla, con il suo vestito bianco, ancora bambina nonostante gli anni trascorsi. Ma è stato solo un istante, l’ombra fugace e ingannevole di un fantasma di un’altra età. Eppure, ancora oggi, forse, è quella piccola straniera che detta.