La casa

Potrei iniziare da lui, da mio padre, ma so in qualche modo che non sarebbe giusto. È da te, invece, forse in maniera inaspettata, che comincerò. Da qualche parte occorre pure iniziare e ho rimandato troppo a lungo questo appuntamento.
Tu, senza saperlo, mi hai insegnato che le storie sono tessuti fatti di trame e orditi, e un filo vale l’altro forse: lo tiri e tutto il panno si raggruma in uno spasimo. Ti ho vista tante volte tirare il filo sull’orlo di un tovagliolo ricamato, sollevarlo con l’ago, sfilarlo per farci il gigliuccio. Lo facevi mentre mi raccontavi storie, in quei pomeriggi in cui in casa restavamo soli io quattrenne e te. Su all’ultimo piano di quella nostra casa in via Roma, che nostra non era ma del Mannellino, il nostro padrone, come dicevamo, che teneva osteria al piano terra e teneva anche noi, a pigione, per diecimila lire al mese. Ma ecco che già sto divagando. Due cose, dicevo, mi hanno convinto infine a fare i conti con le nostre vite: la sua morte, la morte del babbo, e… quella casa: la tua casa, che fino a pochi giorni fa non avevo mai visto ma solo immaginato ascoltando le tue storie sul passaggio del fronte, il Borro dell’Inferno, i tedeschi, gli americani.
È buffo, al momento di scrivere babbo, e anche ora, le dita sono saltate combinandosi sulla tastiera per premere la maiuscola: Babbo! Ho detto che non voglio iniziare da lui, ma da te e dalla tua casa, e solo ora mi rendo conto di quanto sia difficile, se non impossibile, distinguere le vostre vite, arricciatesi insieme fin dall’inizio come due spaghi a formare una sola fune. Non ricordo se l’avessi mai veduta prima la tua casa, non mi pare, mentre tante volte ci siamo recati in Casaglia, in una sorta di tacito pellegrinaggio, per vedere quella del babbo: la grande casa colonica con la colombaia e l’imponente scritta a caratteri cubitali STAZIONE DI MONTA TAURINA. Anche babbo come te sapeva raccontare, ma in maniera diversa, come talvolta raccontano gli uomini. Mi piaceva ascoltarlo, vederlo sorridere, ridere, rattristarsi e commuoversi di fronte alle tragedie che la vita non aveva lesinato alla sua, alla nostra famiglia. Nelle sue lunghe pause di silenzio a tavola, quando raccontava, c’era la pretesa d’attenzione che si deve a ciò che è sacro, e il suo lento masticare faceva pensare a un lume pronto a spegnersi ad ogni nostro respiro. Cosa che puntualmente accadeva quando si rendeva conto che l’attenzione non era sufficiente e che non meritavamo il racconto. Tornava allora il cicaleccio del presente, il tuo soprattutto, specie negli ultimi tempi da dopo che, divenuta più sorda, il continuo dire è il misero baluardo che hai escogitato contro l’isolamento. Taceva, allora, ricordi? Privo di qualsiasi risentimento, seguitava a mangiare, abituato ai fallimenti causati dalla nostra disattenzione e quella dei nipoti, allora troppo piccoli, poi troppo distratti.
Tu, invece, hai sempre avuto, senza rendertene conto, un talento speciale per raccontare. Meno esatta nei tempi, nei luoghi, nel decifrare cosa accadesse alla grande Storia che stavi vivendo, ma più viva, più potente nel trasmettere visioni ed emozioni e nel mimare i gesti, gettare l’occhiata d’attorno, disegnare con il dito il contorno di montagne o la traiettoria di cannonate in lontananza. Stevenson domestico, Orson Wells a buon mercato, ho detto di te tante volte parlando con i ragazzi. In fondo tu, tanto più giovane di lui, vivesti la guerra che eri ancora bambina, bambina in quella casa bellissima. Una casa da contadini allora, da signori oggi che i tempi sono cambiati. Eppure che io l’abbia trovata l’altro giorno miracolosamente, quasi dolorosamente, intatta, inalterata, è quasi un miracolo.
Ero passato a trovarti nel pomeriggio. Sono il figlio lontano, quello che viene solo di rado, e al quale non si può chiedere granché. Sorbitomi l’elenco infinito dei tuoi dolori e dei tuoi mali misteriosi e imperscrutabili volevo portarti da qualche parte. Perché no, a mangiar fuori magari. Ipotesi subito rigettata, giacché per te come per il babbo mangiar fuori era un’occasione rara, importante, alla quale occorreva prepararsi con una sorta di moto atletico, per non sprecarla e godersela davvero. Non te la sentivi di mangiare, troppo poco appetito, uno spreco: non valeva la pena. L’idea di un primo e un caffè non si lega nella tua mente con quella del ristorante. Non siamo mai stati a ristorante quando eravamo bambini. Non te ne faccio una colpa, semplicemente non potevamo permettercelo. Ma anche dopo, quando le cose sono andate meglio, andare a ristorante non ha mai fatto per noi. Era il ristorante un’impresa da affrontare spalleggiati da tutti i parenti in occasione di cerimonie di famiglia, vestiti degli abiti migliori e sempre un po’ in imbarazzo. E anche quando negli ultimi tempi tu e babbo ve lo siete concessi, lo avete sempre fatto per festeggiare qualcosa: il vostro anniversario, un compleanno,le nozze d’oro. Solo voi e noi, con le cognate e i nipoti. Ordinare, domandare, vi metteva a disagio, figuriamoci pretendere, esigere o criticare.
Come ti è venuta l’idea di andare a rivedere la tua casa di bambina? Cosa succede agli uomini e alle donne man mano che gli anni avanzano e la strada da percorrere si consuma sotto i nostri piedi lasciandoci come acrobati in equilibrio su un filo immaginario. Semplicemente, dalla sommità dei palazzi, scorgendo la fine del tragitto si è tentati di voltarsi indietro a stimare la lunghezza della corda, a voler rivivere e rivedere ciò che nel nostro breve trascorrere siamo stati…