PERDUTAMENTE RISE

A Guido, il poeta

Quando in casa parlavamo di zio Agostino, nonna Lucrezia, che pesava come un bue e non si alzava quasi mai dal suo trono di noce nazionale, scuoteva la testa canuta e con una smorfia da matrona esclamava: «Sibarita e viveur!»
Allora ero un bambino con i pantaloni corti e non capivo cosa volesse dire nonna, solo mi piaceva il suono di quelle due parole accostate e le ripetevo fra me come una filastrocca, canticchiandole all’infinito: «Sibarita e viveur! Sibarita e viveur! Sibarita e viveur!»
Ogni domenica però attendevo con ansia i passi di zio Agostino per le scale. Era inconfondibile perché le saliva canticchiando e facendo gli scalini a due a due come uno stambecco. Quando lo sentivo fischiettare correvo ad aprirgli la porta. Elegante, con i capelli impomatati e i baffetti alla Clark Gable, profumava come una donna e mi prendeva in braccio nonostante fossi già grandicello. Un giorno dopo pranzo, mentre da soli montavamo insieme sul tavolo del soggiorno un modellino di stukas che mi aveva regalato, mi ritornò alle labbra quell’espressione oscura e affascinante e con la franchezza dei bambini gli chiesi: «Zio, nonna dice che sei un sibartita e un viveur. Ma che vuol dire?»
Perdutamente rise. Poi, ignorando la mia domanda, iniziò a raccontarmi una delle sue storie. Mi disse che Sibari era il nome di una città dell’antichità andata distrutta al tempo della Magna Grecia e che una volta lui era stato da quelle parti quando aveva fatto il soldato in Calabria.
Un giorno il suo camion era alla testa di una colonna di mezzi militari e procedeva a velocità sostenuta su una strada bianca che attraversava un campo di olivi secolari, quando, d’improvviso, un vecchio in mutande gli si era parato di fronte e lui si era trovato costretto a frenare di scatto per non metterlo sotto. Il muso del camion si era fermato a tre centimetri dal petto dell’uomo che dal canto suo era rimasto immobile con la mano alzata, come se nulla fosse. Un tamponamento senza precedenti era stato evitato per un pelo e mentre i soldati tutti ammaccati si rialzavano dentro ai cassoni rivolgendo a mio zio le peggiori ingiurie, il vecchio si era fatto dalla parte dello sportello ed era salito offrendo a mio zio un sorriso sdentato di riconoscenza.
«Embé?» Aveva chiesto mio zio.
«Si vùi facìti quissa via, passéte du paisi: Iì scinni addrè (1).» aveva spiegato lapidario l’omino e poi, vedendo che Agostino lo guardava perché sopra era vestito di tutto punto con tanto di cappello, giacca e camicia e sotto aveva solo scarpe, calzini e mutande, si era sentito in obbligo di spiegare: «Vève adduve u mastu cusitùre a pigghiè i cazùni, che m’ada abbùte a cunzò.(2)»
Mio zio lo guardò con tanto d’occhi e poi, perdutamente rise.
L’altro ricambiò lo sguardo mostrando per la seconda volta la bocca sdentata, poi in un dialetto che Agostino comprendeva appena, disse:
«Si vi piace riri vi vùgghi cuntò nu fattu (3).»
E senza aggiungere altro, iniziò a raccontare di un pasciuto mercante che dall’antica città di Sibari, si era portato in quella di Sparta per affari, ma subito se n’era assai pentito per via della pochezza del cibo, dei modi e dell’ospitalità degli spartani. Un giorno il pover’uomo, preso dalla fame e dalla disperazione, si era inoltrato nel centro della città in cerca di un posto dove poter mangiare qualcosa di decente. Stava ancora percorrendo vicoli e calle intricate con il naso per aria in cerca di aromi, quando era stato urtato da un uomo che uscendo di corsa da una casa lo aveva fatto finire a gambe all’aria nell’immondo canale di scolo della strada. Subito si era affacciata alla finestra una donna e aveva iniziato a urlare: «Al ladro, al ladro! Prendetelo quel cane!»
Vistosi additato ingiustamente il povero mercante sibarita se l’era data a gambe per non andarci di mezzo, ma una squadra di guardie richiamate da quelle urla aveva già bloccato tutte le vie d’uscita e il nostro si era ritrovato in trappola insieme ad altri due giovani. Inutile dire che a nulla erano valse spiegazioni e proteste. I tre erano stati gettati nella cella più umida e fredda di tutta la Grecia antica, in attesa di essere giudicati. Abituato ai giacigli di petali di rosa e ritrovatosi sulla terra insopportabilmente dura, il mercante si era lasciato prendere dalla disperazione. Fra pianti e singhiozzi s’era fatta ora di cena, poi era trascorsa e, infine, in cielo era apparsa la prima luna. Finalmente, oramai a notte, erano giunte tre ciotole di miglio bollito e freddo che non avevano avuto altro effetto che quello di accrescere la sua costernazione. Mentre i suoi compagni di sventura ingurgitavano avidamente anche la sua razione, che aveva subito rifiutato con un gesto sdegnoso della mano, uno dei due gli domandò:
«Ma da dove trascorri tu per essere così di bocca scelta?»
«Vengo da un posto che si chiama Sibari» spiegò il mercante. «Lì le pagnotte nascono sugli alberi, piovono frittelle dolci dal cielo, sul fiume Crati galleggiano enormi focacce e nell’altro fiume, il Sibari, navigano correnti di schiacciate, carni e pesci che bollono mentre si dimenano nella corrente. Basta alzare una mano, e salsicce, spezzatini, sardine e focacce schizzano su dai fiumi per ricadere nelle nostre bocche o ai nostri piedi, accompagnate da fontane che versano vino anziché acqua!»
Increduli i due si guardarono fra loro, e uno si portò un dito alla testa come per dire all’altro: «Costui è pazzo!» e tutti e due perdutamente risero.
Offeso da quel riso il mercante si alzò su in piedi e disse serio: «Mi prendete per matto? Lasciate allora che vi racconti ciò che accade al mio paese in fatto di cucina e di piaceri e giudicate fra voi se quanto vi dico può essere frutto della fantasia. Questa è la storia di Alcide e Anacleto. Due fratelli considerati i più bravi cuochi che Sibari abbia mai avuto, finché la sventura non si abbatté su di loro!»
La storia del mercante raccontava di due fratelli che abitavano nella stessa casa ed erano a detta di tutti i migliori cuochi della città. Non c’era anno che i loro banchetti non fossero premiati e che sulle loro teste non fossero poste corone d’alloro. L’anno in questione i due avevano preparato un pranzo che sarebbe passato alla storia. Sottili fette di pasta poste a strati l’una sull’altra erano intramezzate da formaggio grattugiato, sugo di carne e panna salata. Alcide aveva avuto l’idea della pasta, Anacleto aveva aggiunto il formaggio e il sugo e di nuovo Alcide aveva suggerito il forno anziché la fiamma viva per la cottura e, Anacleto, aveva insistito perché prima si bollissero le sfoglie di pasta. Il piatto che ne era nato fu mangiato a sazietà da un esercito di signori, cortigiane e giovinetti, e i due furono portati in trionfo e ottennero l’esclusiva su quella pietanza per l’intero anno a venire.
Quando il magistrato pose sulle loro teste le corone, una sciagurata domanda uscì dalle sue labbra:
«L’avete cucinato insieme, ma chi di voi due ha avuto l’idea?»
In quell’attimo Eris, la dea della discordia, sempre in agguato e pronta a intervenire, scivolò giù dalle nubi dell’Olimpo e aguzzando la sua faccia marcia soffiò la sua risposta nell’orecchio di Anacleto che anziché rispondere: «Di entrambi!» come avrebbe voluto, disse: «Mia, l’idea è stata mia!»
Subito un pugno di Alcide lo colpì in piena faccia e la festa si tramutò in una zuffa fatta di lanci di avanzi, graffi, pedate, pugni e morsi. I sibariti, impigriti dal vino e dal cibo, si guardarono bene dall’intervenire e preferirono scommettere sul vincitore e fare un blando tifo, per l’uno o l’altro dei due fratelli.
Quando il litigio finì i due fratelli erano divenuti mortali nemici.
Casa, cucina e pentole furono divise al millimetro dai rispettivi delegati armati di metri, mattoni e cazzuola per tirare su divisori. Ma anche di bilance e stadere per pesare stoviglie, tegami e mestoli. Adesso i due rubicondi fratelli non si parlavano più. Nessuno dei loro piatti vinse più un premio per molti anni. All’inizio si trattò solo di pasta scotta, da un lato, scipita dall’altro, troppo salato l’arrosto, troppo pepato il bollito, ma in seguito arrivarono sulle tavole dei commensali zuppe disgustose e arrosti immondi che rischiarono di farli finire sul lastrico, giacché dopo ciò tutti si guardarono bene dal richiedere i loro servigi.
Memore dei fantastici piatti che i due fratelli avevano saputo creare prima della loro lite e sentendosi un po’ in colpa per la sua domanda, l’anziano magistrato di Sibari volle vederci chiaro, li fece chiamare e li interrogò.
Così Alcide ammise vergognosamente che oramai da anni ogni notte saliva sul tetto e faceva pipì dentro il camino del fratello centrando la pentola che bolliva sul focolare e Anacleto confessò che con una porta segreta penetrava tutte le notti nella cucina di Alcide e manometteva i barattoli delle spezie con intrugli di ogni genere: sabbia nel pepe, vetro nel sale, succo di cimice verde nell’olio.
Il magistrato ascoltò la loro deposizione, ci pensò un attimo, perdutamente rise e poi disse: «Questa ostilità fra di voi mi fa venire in mente una storia che vi voglio raccontare: c’era una volta nell’antica Sibari un uomo con la testa di lupo e le zampe di agnello al posto delle mani, naturalmente si sarebbe mangiato le dita, sennonché…»

1 «Se voi fate questa strada, voi passate dal paese: io scendo lì.»
2 «Vado dal sarto a prendere i pantaloni, ché me li dovetti fare riparare.»
3 «Se vi piace ridere vi voglio raccontare una storia.»