KEATON

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No, ridere non si poteva e neanche piangere, le emozioni forti erano bandite perché a lui davano fastidio.
– Non si ride di niente! , – diceva serio a noi bambini e poi, facendosi quasi minaccioso – Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi!
Io e mio fratello trattenevamo a stento le nostre bocche piene di risate, gorgogliavamo come lavandini appena stasati e con un occhio, di soppiatto, tenevamo sotto controllo la sua ira.
Solo alla domenica ridere era concesso, alla domenica, poco dopo pranzo, sullo schermo compariva la scritta: oggi le comiche. Le comiche, quelle sì che piacevano anche a lui, allora sì che si poteva ridere. Peccato che a me le comiche non piacessero, così piene di disastri e di catastrofi che speravo fino all’ultimo potessero essere evitati. Un signore scivolava su una buccia di banana e cadeva, irresistibile, ma a me dava solo infinita pena vederlo lì per terra, umiliato. Stanlio e Olio poi e i loro disastri. Rammento ancora l’episodio del cavallo sul pianoforte, con la casa distrutta. Prima solo un vaso rotto ed io che pensavo: lo possono incollare, nessuno gli punirà troppo severamente per questo, poi, inesorabilmente, il cavallo sul pianoforte e ancora io che speravo, speravo che riuscissero a rimettere tutto in ordine prima dell’arrivo del proprietario. Mio padre invece rideva di gusto, a bocca spalancata, rischiando quasi di morire ed io, io, sconfitto, soffrivo in silenzio per la casa distrutta, per il vaso rotto, per quei due disgraziati che avevano nuovamente perso il lavoro.
Erano i tempi del muto, noi li guardavamo da lontano. Molti di quei film erano stati girati quando in Europa c’era la guerra. Adesso, dieci anni dopo il primo boom, scoprivamo che altrove si era pensato a ridere e a scherzare. Dopo i morti, le macerie, l’orrore, anche noi ci apprestavamo a rispolverare le risate altrui, a rimettersi in pari col tempo. C’era bisogno di ridere, si scopriva che si poteva farlo, si doveva farlo. Ridere dopo Auschwitz? Sì, finalmente ricompariva la satira politica, la voglia di divertirsi, in famiglia si poteva parlare senza temere che i bambini sentissero e riferissero, si iniziava a dimenticare, nascevamo noi, figli di un altro tempo.
Allora erano due periodi diversi, i tempi del muto visti dagli anni Settanta. Rivisto oggi anche quel tempo, la ricostruzione, la lavatrice, la tv in bianco e nero, si mescola e diviene un tutt’uno con quei film, con i personaggi goffi e inesperti di quelle comiche. Mio padre si alzava la mattina prima dell’alba, le spalle cotte dal sole dentro la canottiera di cotone e via con con la nuova vespa 125 primavera, si recava a costruire la nuova autostrada, faceva trillare le mine per aprire una galleria. Contava le micce nascosto, le ascoltava esplodere come tante risate che laceravano il ventre della montagna.
Poi alla domenica rideva anche lui vedendo sullo schermo altri uomini, altrettanto piccoli e inesperti, combinare disastri, fuggire inseguiti dal mondo, arrabattarsi a vuoto per un amore, per una vita migliore.
Io amavo un poco Chaplin per i suoi lieti fini, ma ridere no, per ridere mi occorreva Keaton, Buster Keaton, Keaton il bastardo, che non sorrideva mai. Lui, così tragico e solenne da non sembrare vero, etereo come un angelo e mitico come un eroe. Lui tentava di fare le cose per bene, fuggiva inseguito dalla vita, tragico, non comico, si affidava al caso e vinceva. Arrivava il lieto fine ed allora, solo da ultimo, stemperata la tensione, io iniziavo a ridere, ridere della sua faccia sfigata, di quei sui lieti fini fortuiti, della formica che vinceva mordendo la mano di Dio, ribaltando il corso della Storia e rendendo tutto più giusto e più accettabile.
Invece mio padre si placava e rimaneva incredulo a guardarmi, Keaton non lo capiva, ma non poteva più dirmi – che c’è da ridere?- perché anche Keaton era le comiche.