Testimoni della memoria, i miei ritratti.

Quando, oramai più di vent’anni fa, ancora poco più che ragazzo, ho scoperto la vita degli altri e, spinto dai miei studi di sociologia storica e dalla mia passione per la memoria, ho iniziato ad intervistare gli anziani del mio paese e non solo per giorni interi ricavandone un numero considerevole di appunti, centinaia di ore di interviste video e audio, ma, soprattutto, dei racconti indimenticabili e alcune delle giornate più piacevoli e senz’altro più forti, emozionanti e formative della mia vita di scrittore e artista, allora dicevo, da subito ho pensato, forse a causa della mia passione per la fotografia e le arti visive, a fotografarne i volti. Un gesto istintivo, ma necessario, che mi pento solo di non aver praticato sempre con la dovuta perizia avendo spesso in uggia il pesante bagaglio di ottiche Zeiss da portarmi dietro con la mia Yashica di allora. Eppure, ripensandoci, fin dalla scuola d’arte, fra tutte le cose che ci sono da fotografare e da disegnare a me interessavano soprattutto i volti, il volto dell’uomo. Quasi disegnarlo o fotografarlo fosse un po’ come carpirne i segreti, la storia. Il nostro volto è ciò che siamo, la nostra comunicazione, la nostra identità e diviene poi specchio, se non di ciò che faremo come pretendeva Lombroso, almeno di ciò che si è vissuto. Il volto come luogo dell’identità e prova del nove del racconto. Giacché i tanti racconti senza volto che leggiamo nei libri sono a pensarci bene, per molti versi incomprensibili. La differenza fra una storia vera e una storia di fantasia è, forse, prima di tutto proprio questa.
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La storia vera ci è raccontata o racconta le gesta e le peripezie di un essere vivente realmente esistito, con un suo volto e una sua identità. La storia fantastica non necessariamente. Sarà per questo che per la copertina del mio romanzo “Se il diavolo porta il cappello” ho ritratto un compagno di scuola di mio figlio che nella mia mente aveva il volto del mio protagonista. Quasi a voler reificare con quel “falso” documento un personaggio vero in cuor mio, verosimile, ma assolutamente di fantasia.
Le storie del Novecento, della guerra e della deportazione che conservo, racconto, e divulgo. Quelle umili storie che ho raccolto, sono solo parole, ma smettono di esserlo e diventano vere e indubitabili, innegabili e certificate quando si collegano idealmente alle immagini dei testimoni che me le narrarono. Sono semplici ritratti in bianco e nero, in bianco e nero come le storie che mi narrarono, ma c’è qualcosa in quei volti che ha a che fare con la dignità e l’umile orgoglio di chi, avendo subito un torto dall’uomo e dalla Storia, ha scelto di testimoniare e di raccontare. Sono foto semplici, senza ardite inquadrature o insolite ambientazioni, ma che cercano di restituire dignità senza indulgere nella retorica. Sono foto fatte in punta di piedi e ognuna di queste foto ci dice qualcosa di queste persone e della loro storia. I loro occhi, il loro modo di sostare di fronte all’obiettivo, il mio tentativo di fermare quell’attimo alla fine dell’intervista senza essere troppo invadente e senza troppo pretendere. Sì, per più di un decennio, prima che le storie sbocciassero dentro di me, la voce maturasse trovando il giusto tono e scoprissi il gusto di raccontare le mie storie e non solo, ho raccolto le storie degli altri e catturato i loro volti con una scatola magica, anche questa, semplice e quasi pacata, si chiama fotografia, magari solo ducumentaristica se volete, eppure è quella che amo di più. Ancora oggi nei miei viaggi fotografare i volti, le persone per strada, la gente che incontro e con cui parlo è un piccolo vizio che mi è rimasto, è forse un modo per portarmi a casa una parte della loro storia e della loro amicizia.

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La moglie del carabiniere Del Monaco Francesco ucciso nella strage nazifascista di San Quirico, mentre guarda la foto del marito durante l’intervista. Sull’episodio ho curato in occasione del 60° della strage la pubblicazione del racconto del curato Don Vincenzo Del Chiaro Le tragiche giornate del 17-19 agosto 1944 in San Quirico Valleriana che racconta minuziosamente l’accaduto e un documentario con le interviste dei testimoni, oggi molti non più in vita, dal titolo Venti croci fra i castagni che spero di riuscire a mettere on line prima o poi.

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Elio Nanetti salvatosi insieme al fratello per una fortuita coincidenza, testimone della vicenda di Pratale e fra coloro che raccolsero i resti delle vittime.

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Nella foto Mirella Lotti, al termine di una delle tante giornate trascorse insieme mostra la foto del padre e del nonno uccisi nella strage nazifascista di Pratale quando lei aveva solo otto anni.
La sua vicenda è narrata nel mio romanzo “Prima che venga giorno” Lineadaria edizioni e Loescher per l’edizione scolastica. Sulla vicenda ho condotto anche una ricerca insieme allo storico Francesco Catastini: La Strage di Pratale: storia e memoria di una strage dimenticata. 23 Luglio 1944. Pagnini e Martinelli editore.

Perseguitati

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In questi giorni ripenso spesso a Lea e Miriam, due bambine salvate, insieme a un’altra loro sorella, da Amina e suo Marito Umberto tanti anni fa, vicino casa mia. E’ una storia che non ho mai scritto e non scriverò mai. Ci ho provato, ma dopo averla raccontata tante volte ai ragazzi, ho concluso che ci sono storie che non possono essere scritte, ma solo raccontate. Questa è una di quelle.
Incontrai Lea e Miriam Della Riccia con i loro mariti a Montecatini terme in occasione del conferimento del riconoscimento di Giusta fra le Nazioni ad Amina e suo marito Umberto, era il 2004. Mi accolsero nel salottino di un grande hotel in Montecatini alto. Miriam lasciò raccontare alla sorella Lea: “E’ lei che racconta!” disse. Conservo anche un video VHS di quell’intervista, ma non ho mai avuto bisogno di rivederlo perché la loro storia mi si è scolpita in testa così come me la raccontò quel giorno Lea.
Quel giorno mi domandarono anche come mai c’era questa ostilità degli italiani nei confronti dello stato di Israele, perché mai fosse così diffuso quello che percepivano come un sentimento filopalestinese. Mi dissero della loro sorella forse, o di un altra ragazza della loro famiglia, non ricordo con esattezza, che era morta durante il servizio militare, obbligatorio, lì da loro, anche per le donne. Di un Paese in cui hai paura a prendere l’autobus e a mandare i figli a scuola. Paura di una telefonata che ti annunci che non torneranno mai più. Non seppi cosa rispondere loro. Non avevo voglia di mettermi a parlare della sinistra italiana e di fare analisi sociostoriche più o meno strampalate. Capii però che quella era una domanda rivolta a me, a una persona a cui stavano consegnando, regalando, un pezzo della loro storia. Era come se mi domandassero, fra le righe, se anche io ce l’avevo con loro. C’era una profonda tristezza e apprensione negli occhi di queste persone che avevano perso i genitori e una parte della loro famiglia e del loro mondo ad Auschwitz.
“Sei nostro amico o no? Sei con noi o contro di noi?” questa è la domanda che, più o meno coscientemente, si pongono sempre i sopravvissuti.
Non dimenticherò mai quello sguardo, quel tentativo di capire e cogliere nell’altro il pregiudizio. Ci sono vite, esistenze, per cui la persecuzione non ha mai fine, per le quali la sensazione di starsene tranquilli, in pace, a casa propria sembra un sogno irraggiungibile. Persone che hanno provviste per anni nella dispensa, piani di fuga pronti, progetti mentali di come farebbero a bere o a nascondersi o difendersi in casa propria ricavando anfratti fra due pareti. Persone che vivono con la paura che accada ancora. E’ la stessa paura dei palestinesi sotto le bombe anche se è più difficile vederla. E la paura, si sa, fa vivere male ed è un cattivo consigliere. La paura impedisce la pace, alimenta l’odio, l’eccesso di reazione sul quale contano coloro che vivono e hanno un ruolo solo fino a che ci sarà paura e guerra fra questi due popoli. E intanto a morire e ad aver paura, da entrambe le parti, sono i civili, i padri e soprattutto le madri, che vorrebbero solo vivere tranquille e crescere bambini che non si sveglino piangendo la notte e non rischino di essere uccisi dall’odio che divide quella terra.

Il bambino scarafaggio

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Di fronte alla morte di un bambino, di un solo bambino, si dovrebbe farla finita, proclamare lutto nazionale da entrambe le parti e giurarsi reciprocamente di non farlo mai più. Ma così non è fatto l’uomo, la colpa è degli altri e i leader dormono tranquilli. Dormono tranquilli? Certo, perché non tutti i bambini sono uguali. Una cosa sono i nostri bambini e una cosa i bambini degli altri. Chi non ha sperimentato, quell’impulso profondo che colpisce le madri quando dividendo una torta danno, quasi casualmente, la fetta più grande al proprio figlio? Oppure no, la danno all’ospite, il che è lo stesso frutto della reazione a quell’impulso, ostacolato con la ragione. Chi dovendo scegliere chi salvare, salverebbe il figlio di un altro e non il proprio? Neanche per le maestre i bambini son tutti uguali, e quanto si arrabbiava mio figlio per le ingiustizie e le preferenze. Ma qui si va oltre. Qualcuno ha accostato infelicemente le foto dei bambini ebrei con le mani alzate a quelle dei bambini palestinesi uccisi. Accostamento infelice, non rigoroso, storicamente sbagliato. Eppure, nel nazista che uccide il bambino ebreo e nel soldato israeliano o nel militante arabo che uccide il figlio degli altri, il futuro degli altri, c’è la medesima idea di fondo: quel che ho ucciso non era un bambino come i miei, era un bambino del nemico, un topo, uno scarafaggio, una peste da eliminare con ragione e senza rimorso dalla faccia della terra.
Nel caso degli israeliani non può non sbalordire che a sparare sui civili e i bambini siano i figli e i nipoti di coloro che (alcuni ancora vivi) per miracolo sfuggirono al medesimo odio razzista, con le debite differenze imparagonabili di dimensione e logica, naturalmente. Il risultato finale, la morte del bambino scarafaggio, è comunque molto simile, direi lo stesso.
E adesso occorrerebbe una bella chiusa efficace, magari di speranza a questo mio ragionamento. Purtroppo però non ce l’ho, né voglio avercela. Cerco solo solo di non vedere scarafaggi nei figli degli altri, più di quanto non li veda nei miei.