In cammino

È appena iniziato a piovere quando attraverso di corsa la strada ed entro nell’ostello. C’é una vecchia stufa di ceramica al centro della sala e ho ancora nelle orecchie i discorsi insulsi del camionista che mi ha tirato su e dato un passaggio fino allo svincolo della città. Faccio appena in tempo ad entrare e il cielo imbastardito da grandi nuvole scure vomita come un ubriaco secchiate di pioggia sull’asfalto e le auto schizzando i vetri della sala.
Mi avvicino alla stufa con lo zaino in spalla per scaldarmi e asciugarmi e di nuovo sento gli occhi bagnarsi. Ogni cosa me lo fa tornare in mente. Non so come inizio a singhiozzare.
«Tutto bene?» mi domanda la ragazza dietro al bancone della reception.
Cerco di trattenermi, ma non ci riesco, mi vergogno, ma non posso fare a meno di seguitare a singhiozzare a testa bassa riparato dai capelli lunghi che mi calano sul volto.
Lei gira oltre il bancone e viene verso di me mettendomi una mano sulla spalla per consolarmi. Mi sforzo di trattenermi, ingoio e sollevo il volto per guardarla: «Sì, sì!» la rassicuro con la gola che mi duole per lo sforzo: «Cerco una stanza. Ce l’avete?»
È una biondina come tante, avrà diciannove anni, ma il volto è ancora quello di una bambina. «Stai bene?» mi domanda ancora.
«Sì, sì!» ripeto. «Non è niente… solo una brutta giornata».
«Siediti qui vicino alla stufa, ti preparo qualcosa di caldo» dice, e si allontana.
Alzo la testa per guardarmi intorno: lui è lì di fronte a me, avrà poco più di vent’anni, vicino alla stufa, i piedi negli zoccoli di legno poggiati sul pavimento di tavole della baracca. Accanto altri ragazzi come lui, tutti sugli attenti. Mi guarda e mi sorride, come dire, ora viene il bello. D’un tratto entrano due tedeschi, anche loro poco più che ragazzi, con la lista dei prigionieri e le uniformi stirate e pulite. A un certo punto il sottufficiale che sta facendo l’appello alza gli occhi dalla lista e vede la bustina militare, il berretto, poggiato sopra la stufa. Si avvicina, lo prende fra le dita.
«Wem gehört das?» domanda mostrandolo agli astanti. Nessuno risponde. «Wem gehört das?! Di chi essere?» ripete in un urlo minaccioso.
E allora lui non può far altro che avanzare di un passo a testa bassa e dire: «Mein, è mio!»
Il tedesco gli si avvicina e gli restituisce il berretto senza dire nulla, poi, all’improvviso, quando l’incidente sembra chiuso, gli lascia andare un pugno in pieno volto con tutta la sua forza facendolo crollare a terra.
«Italiano disordinato!» gli dice massaggiandosi la mano, e sorride divertito, mentre lui si rialza con il sangue alla testa e come una furia fa per scagliarglisi addosso, subito retto e trattenuto dai compagni e dal suo risubentrato buon senso.
«Einige Probleme italiano?» gli domanda beffardo il caporale facendoglisi vicino con la mano pronta sulla fondina della pistola.
Inghiotte: «Nein… Kein Problem!» mormora stringendo i denti e poi i due militari escono ridendo e la porta della baracca si richiude un istante, poi si riapre e una coppia di studenti entra e va a sedersi a un tavolino poco distante.
Ora la baracca svanisce, c’è solo la sala dell’ostello, la medesima stufa, il pavimento di nuovo in cotto. Mi accorgo che non è granché pulito, meno male penso e sorrido proprio nell’istante in cui la ragazza mi posa di fronte una tazza di cioccolato fumante.
«Va meglio?» domanda e scarica dal vassoio un’altra tazza per sé accomodandosi al tavolo.
«Irene!» si presenta e a me occorrono alcuni secondi per tendere la mia e dire il mio nome.
Mi sembra che le dita della ragazza scottino, il che significa che le mie devono essere gelate.
«Dov’è che vai?» domanda lei. Ma so che vorrebbe chiedermi: “Perché piangevi?”.
La guardo: «Sono uno stronzo sai?» le dico.
«Capita» dice lei, e ride. «Gli stronzi di solito non piangono però… semmai fanno piangere».
Adesso che posso guardarla meglio e che ha sorriso mi rendo conto di quanto sia bella, intorno a noi parte una musica di violino e di fisarmonica e si alzano uomini e donne iniziando a ridere e ballare. Si sentono voci in russo, polacco, tedesco e italiano, profumo di liberazione. Lui è lì, lo rivedo fra i ballerini, abbraccia una ragazza bionda dell’est molto bella, anche lui lo è; ballano guancia a guancia, mi guarda e mi fa l’occhietto.
«Peggio dei nazisti…» mormoro portandomi le dita agli occhi.
«Come?» domanda la ragazza. «Peggio di che?»
«Ogni volta che faccio la doccia calda» inizio a dire, «ed esco a piedi nudi sul pavimento del bagno mia nonna protesta e corre subito con lo straccio, e scuote la testa, ma con me non dice nulla ed è sempre gentile. Mi domanda se può mettere nella cesta della biancheria sporca i miei abiti, e se dico di sì ce li mette. Non ci si azzarda altrimenti, da dopo che ci ha ficcato una maglietta ancora pulita, che volevo mettermi, e le ho urlato contro».
Lei mi guarda senza capire, adesso per la prima volta si starà chiedendo se non abbia fumato.
Mi guardo intorno, i ballerini sono scomparsi, lui è lì insieme a un altro prigioniero, fatico a riconoscerlo da tanto che è magro. Stanno tagliando a fette una rapa trovata nel campo durante il lavoro e tentano di cuocerla sulla stufa concentrati su quell’operazione.
«Il bagno deve essere impeccabile» seguito a spiegare alla ragazza. «Anche la casa deve esserlo, e mai una volta in tanti anni che abbia visto mio padre bagnare i fiori del giardino senza riavvolgere la canna e riporla. Siamo una famiglia ordinata, precisa. Possono arrivare gli ospiti all’improvviso o anche il Presidente della Repubblica in visita con i giornalisti e la televisione e non ci beccheranno mai impreparati, con le ragnatele negli angoli, i vetri sporchi o un paio di scarpe abbandonate nell’ingresso» rido, anche la ragazza ride e ascolta e soffia sulla cioccolata reggendo la tazza di fronte alle labbra. Ha degli occhi molto belli, con una luce indefinibile.
«Quando rientro non faccio in tempo a togliermi le scarpe che mia madre o mia nonna me le prendono dalle mani e le ripongono nella scarpiera. Sul parquet di casa ci si muove con le pattine, per non sporcare, per non graffiarlo. Una Santa Alleanza fra nuora e suocera in nome del dio pulito!» lo dico senza gioia, quasi alzando la voce, lei mi guarda come dire: «Va avanti!»
«Tutto deve essere ordinato, perfetto come se tutto ciò avesse importanza, o un senso. Per loro lo ha evidentemente, e anche mio padre è ben addestrato fin da quando era bambino. Per questo nonno doveva lavarsi in garage, con l’acqua fredda, anche d’inverno. Forse è per questo che si è ammalato. Non ci avevo mai pensato prima, come se non me ne fossi mai accorto, ma ieri mentre lo guardavo disteso nella bara con il suo vestito nuovo e il suo sorriso buono mi è venuto in mente così all’ improvviso e ho pensato stringendo i denti: “L’hanno fatto lavare in garage per tutta la vita, a un pozzetto per i panni, con un pezzo di sapone di Marsiglia e lui non ha mai protestato, non ha mai detto nulla”.
Adesso lo vedo avvicinarsi. Si siede fra noi, a cavallo di una sedia, poggiato con le braccia alla spalliera e ci guarda. Mi fa di nuovo l’occhietto, e guarda la ragazza. Se la ragazza potesse vederlo noterebbe quanto ci somigliamo.
«Quando pioveva e non poteva occuparsi dell’orto stava nel garage seduto ad ascoltare una vecchia radio. Anzi, a dirla tutta stava in un angolo del garage, perché il resto è costituito dal perfetto organizzatissimo laboratorio attrezzato di mio padre. Quante volte l’ho sentito urlare, inveire contro di lui: “Babbo! Babbo! Il cacciavite? Mi hai preso un cacciavite? Per fare che dico io? Dove l’hai messo!? Quante volte ti ho detto di non toccare la mia roba!”
«No, non un garage intero, solo un angolo, una sorta di cuccia, dove ripararsi dalla pioggia, solo in parte dal freddo, lavarsi e cambiarsi; la pipì nell’orto prima di salire le scale per mettersi a tavola, cenare, poi distendersi sul letto vicino a mia nonna, dormire e venir ricacciato fuori il mattino dopo.
Eppure l’amavano di certo, ed ora piangono: piange mia nonna, mia madre e anche mio padre piange».
La ragazza annuisce: «Anche io ho perso mio nonno…» mormora.
«Forse tu gli volevi bene, io no… io non lo filavo nemmeno. Eppure io e lui eravamo gli unici disordinati in casa. Lui per via dell’età nonostante i suoi sforzi, io… In ogni modo adesso restavo solo io. Io solo a pisciare fuori dal water, a pulirlo male, a lasciare panni sporchi e cose in giro. Non avrei dovuto nemmeno fare granché attenzione. Sarei potuto stare lì fino a cinquant’anni. Nessuno mi avrebbe sgridato se fossi rimasto perché con me non funziona, sono io che urlo più forte in casa e mi dibatto come un gatto selvatico se vengo attaccato, e mordo e graffio e soffio.
«Lui no. Lui non ha mai detto niente. Non l’ho mai visto fare nemmeno un gesto di insofferenza quando guardando la partita dell’Italia alla Tv veniva messo fuori di casa perché c’era da dare lo straccio, mentre io, io potevo rimanere in bilico su una sedia come su un trespolo a guardarla.
«Non l’ho nemmeno mai difeso, mai che abbia detto: “Ma lasciateci guardare questa partita in pace, laverete dopo, maledette!”. Io restavo, lui usciva, era normale così, era giusto così per come andavano allora le cose».
«Ti senti in colpa, è normale» mormora la ragazza allungando la sua mano bianca e delicata a sfiorare la mia.
«Sai cos’è che mi fa male più di tutto?» le dico. «Che lui non protestava, non ha mai protestato! Aveva voglia di raccontare, come fanno i vecchi. Le sue erano storie di guerra e di prigionia a cui non ho mai badato granché. Eppure oggi non ho altro che quelle, che le sue storie. Così le ho messe in un sacco, ho preso su un po’ di soldi, le mie cose e ho deciso di mettermi in cammino».