A viso aperto. La barba bambina

L’anno scorso di questi tempi, verso metà autunno, chissà perché, cominciai a lasciar crescere più del solito la mia barba. Fu per pigrizia credo, ma ben presto mi avvidi del risultato. In principio fui io l’unico a dedicare attenzione alla cosa, e da lì a poco quello che divenne il mio barbiere, anche lui barbuto, sebbene più giovane di me di qualche decennio. Ho sempre portato la barba un po’ lunga, ma qua si trattava, seguendo la moda corrente, di trasformarla in una barba vera e propria. Quando per caso entrai nel negozio dall’insegna Barberia, mi avvidi subito di essere nel posto giusto. Tutto intorno e sulle relative poltrone dal sapore vintage sedevano giovani dalle lunghe e folte barbe, e alle pareti foto e disegni di modelli irsuti e pubblicità di prodotti per barbe e baffi. Subito provai un certo imbarazzo con la mia barba arruffata e appena un po’ lunga, di fronte a quei fenomeni della natura. Ma da qualche parte occorreva pur cominciare. Quando fu il mio turno il barbiere si prodigò con sollecitudine in spiegazioni, sul baffo, che sarebbe divenuto folto, sulla barba, bella e completa – come ebbe a dirmi solleticando la mia vanità – che fra qualche mese mi avrebbe allungato il volto tondo. Dopo un trattamento mistico a base di gesti eleganti, panni bollenti, schiume emollienti, ritocchi, scontornamenti a rasoio e oli, uscii dal tempio con il borsello notevolmente alleggerito recando meco una busta che conteneva una spazzola di kotibé, un legno rarissimo, e di pura setola di cinghiale, dell’olio al profumo di rosmarino fabbricato in Italia e diversi campioncini di pomate varie. Avevo desistito dal comprare una spazzola più piccola per i baffi, ma ciononostante non avevo badato a spese deciso com’ero a cambiare la mia vita e prendermi cura della mia nuova creatura e tramite lei del nuovo me stesso che m’attendeva. Oramai quasi calvo, io che ero stato un capellone in gioventù, vicino alle soglia dei cinquanta che avrei compiuti da lì a pochi mesi, potevo mostrare al mondo un secondo fulgore e una barba tenera e formidabile, con due baffi ben guidati, che presto mi avrebbero trasformato in un incrocio fra l’arcigno Mosé di Michelangelo e il ritratto ad olio di un preside risorgimentale. Subito la mensola del mio bagno, previa una ricerca famelica in Internet, si riempì di ogni sorta di prodotti da barba i cui marchi urlavano l’orgoglio di appartenere alla casta dei barbuti, a questa nuova razza sovrumana, ed io, che fino ad allora usavo un pezzo di sapone di Marsiglia per tutta la mia persona capelli e barba compresi, divenni protagonista di una nuova affettazione per me e per la mia barba, o meglio per me tramite la mia barba. Indugiavo narcisicamente di fronte allo specchio per ore in operazioni di shampoo, schiume frenate, oli, pomate e gel rinforzanti e modellanti dal costo esorbitante. La barba grata crebbe, sempre più rigogliosa, con i complimenti del mio barbiere che mi incitava a seguitare nell’impresa scolpendomela letteralmente e dando al mio volto nuova forma. Trattavisi di una barba un po’ ispida, nonostante i diversi emollienti impiegati, striata di bianco sul mento e per lo più oramai sale e pepe. Presto l’effetto curioso fu quello di avere una sorta di coda di puzzola attaccata al mento, e se il volto ne risultò più lungo, sicuramente per i baffi imponenti e davvero formidabili e quella strisciata bianca sulla bazza, risultai anche più vecchio di quanto già non sembrassi, senz’altro! Il bello della barba è proprio questo, che ti cresce piano piano e le persone dopo che ce l’hai sono pronte a giurare che l’hai sempre avuta tale quale. Fu così in generale tranne che per una mia vicina di casa che si complimentò con me per il mio nuovo look, elogiando la mia bella barba. Non so dirvi quanto l’amai in quel momento e come gli fui grato. Sebbene oramai cinquantenne, quella barba era nuova di zecca, una barba bambina che come tale rinnovava anche me trasformandomi in un altro e nascondendo per metà al mondo la mia faccia da cane bastonato. Era una barba da accudire, cullare, carezzare, amare, come un neonato. Purtroppo però, anche mia moglie finì per accorgersi di lei. Da giorni l’aveva notata, senza dire niente, non osando interferire con il mio nuovo hobby, e anch’io mi ero accorto del suo silenzio a proposito. Solo al momento di baciarla non riusciva pienamente a nascondere la sua riluttanza e il suo fastidio finché ammise che “le sembrava di baciare una palla di pelo!” e finì così per evitare di farlo del tutto. A domanda diretta: “Ti piace o no la mia barba!?” cercò di non rispondere e guardando il ben di dio di flaconi allineato sul mobiletto del bagno, ammise solo che detestava il profumo di rosmarino che aveva quando la ungevo: le sembrava di baciare un arrosto di vitello. Tentai di ovviare comperando altri oli, per scoprire che detestava comunque anche quello di sandalo, tarassaco, radicchio e così via.
Infine ammise che la mia barba… non che non le piacesse, ma…
“Sì…?” domandai.
Faceva di me un altro, un uomo nuovo appunto, che però non era quello che aveva sposato e amato fino a quel giorno. Rincarò dicendo che era come se avessi sul volto una maschera, qualcosa di posticcio che nascondeva il mio vero volto. La parola posticcio mi sconvolse letteralmente. Forse avevo la faccia più lunga, ammise, certo non si vedeva più il doppio mento, potevo perfino sembrare più autorevole e interessante, ma… lei preferiva l’altro, con la barba un po’ incolta e la faccia tozza di un bradipo. Quello che se la tagliava da sé e se la sciacquava con un po’ do sapone di Marsiglia. Il vecchio me stesso, insomma, quello che invecchiava con lei giorno dopo giorno a viso aperto e che aveva sposato.
Uscii di casa sbattendo la porta spazientito, come una moglie a cui il marito abbia fatto un commento poco carino sul vestito nuovo, o sui capelli appena fatti dalla parrucchiera.
Avevo bisogno di riflettere, e lei abbarbicata al mio mento rifletteva con me, o meglio si rifletteva in ogni vetrina mostrandomi la sua presunta bellezza. “Scegli me mio caro, scegli me! Chi non ci ama non ci merita! Pensa al piacere di passare le tue dita intinte di crema profumata nella mia morbidezza! Sono la tua morbida foresta! (Tentava perfino le allusioni sessuali adesso!) Anzi di più, sono la tua bambina! La tua piccolina da cullare, da coltivare e nutrire. Sono l’unica cosa in te capace di crescere e andare avanti, là dove tutto è destinato a diminuire e arretrare. Lasciala perdere quell’invidiosa di tua moglie! Ha solo paura che tu sia troppo bello e attraente! È gelosa del tuo nuovo fascino, ecco la verità. Di più! È gelosa di me, del fatto che siamo sempre insieme e che mi carezzi più di quanto tu accarezzi lei. E poi mi sussurrò, oramai senza freni, ricorda che io sono la cosa più viva che tu abbia, perfino nella bara quando sarai morto e sepolto seguiterò a crescere per giorni! Io sono il tuo ultimo anelito di vita e di gioventù e debbi difendermi ad ogni costo!
Queste ultime parole risuonarono sinistre nelle mie orecchie. Mi guardai nella vetrina del macellaio, intravedendomi fra i pezzi di carne morta. Sembravo ad un tempo un santo anacoreta e il nonno di Heidy dei cartoni della mia infanzia. Se le avessi consentito di crescere ancora sarei divenuto un talebano della TV. Mi ricordo che pensai. “Io non sono la mia barba! Te lo do io l’arretrare!”
E avanzai verso casa con il preciso intento di compiere un delitto! “Sarebbe morta prima di me eccome la signorina!”
“Rifletti!” mi urlava lei. “Pensa a quello che fai, al tempo che ti è occorso per fami crescere. Cosa dirai al tuo barbiere?!”
Non l’ascoltavo più. Entrai in casa, mia moglie era già andata a lavoro. Infilai la spina del tosapecore, come lo chiamavo poco amorevolmente, impostai la macchinetta su 2 e detti il via al suo ronzio di calabrone. Fu un corpo a corpo durissimo, lei prima si oppose lottando aspramente, poi stremata cadde a mazzi, dilaniata, frammentata, nel lavandino. “Che soddisfazione!” Presi un pezzo di sapone e mi lavai via i peli residui. Alzai la pattumiera e passando la mano sulla mensola del bagno feci cadere centinaia e centinaia di euro di flaconi nel sacchetto risparmiando solo la spazzola da cinquanta euro, con la quale mia cognata pettina oggi Achille, il suo gatto siamese.
Poi mi guardai nello specchio sentendomi per un attimo improvvisamente nudo, flaccido, bianchiccio, un po’ spaurito, con la vergogna che mostrano certi cagnetti appena tosati. Mia moglie tornando dal lavoro non disse nulla, solo mi baciò sulle labbra con rinnovata passione. Non mi restava che uscire di casa. Lì mi attendevo che tutti, che il mondo intero, la mia vicina, il mio benzianaio, il farmacista, i colleghi di lavoro, mi domandassero ragione del taglio della mia prodigiosa barba. Invece niente, nemmeno i miei figli adolescenti sembrarono farci caso: come se non l’avessi mai avuta. Per loro che fosse lunga, corta o fossi del tutto rasato non aveva nessuna importanza. Molto probabilmente perché alla fine una barba o un taglio di capelli non fanno differenza e siamo quello che siamo, o forse perché le persone non si guardano, noi non ci guardiamo granchè, e se lo facciamo non c’importa poi molto della barba degli altri almeno che, gli altri, non siano la persona che amiamo.
Giorni dopo mia moglie mi abbracciò da dietro e mi passò una mano sulla barba un po’ più lunga del solito, a causa di un lavoro da finire e della mia solita pigrizia. Ebbi un vero e proprio sussulto, quando, con una voce da sensuale Salomé che non le conoscevo, mi sussurrò all’orecchio saggiando l’ispida mia barba in quella carezza: “Che fai, non vorrai mica farla ricrescere: quella puttana!”

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