SOLDATINI di Fabrizio Silei

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Giovedì era giorno di mercato allora. A pensarci bene anche oggi è giorno di mercato il giovedì da quelle parti. Erano gli anni Settanta. Mia madre indossava un vestito a margheritoni gialli, si ravversava i capelli guardandosi nello specchio della toilette e poi mi prendeva per mano ed iniziava il mio calvario lungo tutta via Roma. Dio!, quanto mi sarebbe piaciuto vivere in piazza Matteotti, uscire e trovarmi nel bel mezzo del mercato. Ma no, niente affatto. Lì ci vivevano i signori e noi signori non eravamo. Noi abitavamo nel buco del culo del paese, fra gli operai, i pendolari e i muratori, proprio di fronte al distributore di benzina: nel cosiddetto Fondaccio. Da lì al mercato c’erano trecento metri, solo trecento metri, roba di pochi minuti a farli tutti di filata, ma lei no, lei doveva fermarsi a parlare con questo e con quello del più e del meno, di questioni assurde delle quali non mi importava un bel niente.
A dire il vero non so di cosa parlassero. Erano cose da grandi, il tempo che fa, il tizio che era morto, le bracioline impanate troppo dure, roba da piano di sopra. Io vivevo al piano di sotto, appeso alla sua mano, gli arrivavo si e no sopra la cintura. Adesso la smetterà di parlare, pensavo, e invece lei ci dava dentro da dio. Un talento naturale nel far lievitare i discorsi, nell’annodare la fine dell’uno con l’inizio dell’altro. Laddove sarebbe bastato un saluto, lei impiegava decine di minuti. Dopo un po’ io, desideroso di arrivare sul mercato, iniziavo a tirare la mano, che naturalmente era collegata al braccio e alla sua persona, sempre più forte. Ma lei niente, continuando a parlare contrastava la tensione tirando a sua volta, imperturbabile. Soffiavo, supplicavo, battevo i piedi, cercavo di liberarmi minacciando di proseguire da solo. Esasperata mi diceva di non fare così, di non essere uggioso, e tirava in senso contrario continuando beatamente il suo discorso. Per ora ero solo un moscerino fastidioso, da mettere a bada scuotendo appena la mano.
Santo cielo, dover aspettare da bambini il comodo dei grandi. Essere lepri e doversi fermare ad attendere le tartarughe. Da lì a poco la cosa mi mandava in bestia e la lotta si acuiva, come nei viedeogames, saliva di livello.
Mi lasciavo penzolare con tutto il mio peso cercando di staccarle il braccio e tiravo su le gambe dondolandomi appeso a quella sorta di liana. Ma lei niente, si chinava per farmi toccare terra scaricando il peso e seguitava a blaterare.
«Dai mamma, andiamo!»
«Aspetta un attimo, fammi finire un discorso.»
Il più delle volte era l’interlocutore ad avere pietà di me e a salutare. Ma ce n’erano alcuni, o meglio, alcune, che erano un vero flagello: erano come mia madre. Combinate con lei davano il via a una reazione di idrogeno ed ossigeno: un incendio inarrestabile, roba pargonabile al plutonio, pura energia atomica che trovava alimento in se stessa: briciole di fatti e di materia capaci di alimentare una reazione a catena di discorsi senza fine. Maledette!

Pochi attimi prima, tanti anni fa, mentre procedevamo sul marciapiede a passo svelto pregavo fra me: «Fa che non si incontri nessuno! Fa che non si incontri nessuno!»
Qualche volta andava bene, ce la cavavamo con una o due soste non troppo brevi, ma quando vedevo venire verso di noi Duilia, Iolanda, o qualcun’altra delle sue interlocutrici preferite, beh, mi sentivo morire. Dei giorni per arrivare al mercato potevamo impiegare anche due ore e mezzo. Alla fantastica media di un metro e mezzo ogni due minuti.
Caduto nella tela di quelle signore un muro colossale si ergeva fra me e il mercato fattosi improvvisamente lontanissimo. Allora, con le lacrime agli occhi immaginavo la gente con le buste e i fagotti che riprendeva la strada di casa, i commercianti che riponevano le merci e, disperato, giocavo la mia ultima carta, il terzo livello: la bizza maleducata.
Strattonando selvaggiamente quel povero braccio di madre ciarliera, iniziavo a piangere disperatamente e ad urlare:
«Andiamo! Dai andiamo!»
Se la cosa non sortiva alcun effetto, passavo senz’altro all’artiglieria pesante. Ciò mi avrebbe precluso la gioia di avere un giocattolo nuovo, ma almeno avrei avuto il mercato:
«Troia! Puttana! Andiamo, voglio andare al mercato!»
Gli interlocutori rimanevano sconcertati. Mi guardavano accigliati, e mia madre, colpita alla nuca da quelle parole che echeggiavano da parte a parte della strada era costretta ad occuparsi di me prima che tutto il paese si rendesse conto di quanto fosse ben educato il suo angioletto e riversasse il suo biasimo incondizionato su di lei. Costretta ad accomiatarsi anzitempo, vale a dire prima dello scoccare del giudizio universale, mi guardava minacciosa, ferita:
«Ora non ti compro nulla! Dire queste cose alla mamma! Ma stasera quando lo dico a i’ tu babbo! Vedrai! E poi di fronte a tutti! Bella figura che mi hai fatto fare!»
Finalmente! Vittoria! Gli scapaccioni che piovevano sulla mia testa erano confetti per la mia anima liberata. Il molosso si muoveva, il pachiderma riprendeva ad avanzare! Evviva!
«Fa che non incontriamo nessun altro! Fa che non incontriamo nessun altro!» pregavo dentro di me. Avevo vinto, forse il mercato non era ancora finito, forse avrei fatto in tempo a vederlo e a vedere il banco dei giocattoli del padre di Stefano: il mio migliore amico.
La rabbia di mia madre per le mie brutte parole e per la mia insistenza, svaniva come nebbia al sole una volta giunti sulla piazza del mercato. Un’altra madre sarebbe rimasta in eterno mortalmente offesa, ma lei no. Reduce da un suo mondo contadino e da un’infanzia fatta di astuzie e dispetti in cui tutto era possibile e permesso; una volta allontanatasi dagli occhi della gente, dimenticava subito, giacché per lei e per la sua anima di bambina, bestemmie, parolacce od altro non avevano in realtà alcun senso o valore. A ripensarci bene, oggi so che a procedere lungo quel marciapiede erano due bambini che si tenevano per mano. Poi io sono cresciuto e lei no: è rimasta la bambina di allora. La mia dolce bambina chiaccherona. Tenera, furba, indovina, maliziosa e birbante e al contempo ingenua e innocente come lo sono i fanciulli nei dipinti romantici.
Al mercato mi attendeva il banco dei giocattoli, per questo volevo arrivarci il prima possibile. Non avevamo soldi per i giocattoli, l’unica cosa che, dopo aver guardato questo e quello, mia madre poteva permettersi era una busta di soldatini militari verdi. Sempre lo stesso giocattolo, tutti i giovedì. Una ventina di soldatini di plastica verde del valore di una monetina.
Come un generale reclutavo il mio esercito rimpinguandolo ogni settimana con una nuova pattuglia. Ne avevo due fustini da detersivo Dash pieni. Quando li distendevo nell’andito del grande palazzo all’ultimo piano, lo riempivano quasi per intero. Altri ancora li nascondevo nei gerani e nei cactus come sentinelle a guardia di una gola o di un canyon.
Senza ombra di dubbio quei soldatini erano tedeschi, dovevano esserlo; adoravo i tedeschi e ero felice di averne un esercito così grande e sconfinato.
Non avevamo la televisione, la radio scassata gracchiava soltanto, ma mia madre sin da piccolissimo mi aveva sempre raccontato le storie della sua infanzia, della guerra e del passaggio del fronte.
Oh, dolce ricordo, in quei momenti la mia madre chiaccherona smetteva di blaterare a vanvera e diventava la principessa della narrazione: Orson Wells domestico, Stevenson a buon mercato… mi raccontava le storie della guerra e del passaggio del fronte. In quelle storie i tedeschi erano terribili e per questo li adoravo. Essi esercitavano su di me il fascino dei cattivi delle fiabe. Armati, organizzati, implacabili. Come potevo non ammirarli? La mia anima nera di monello si inebriava di quei racconti e sarebbero occorsi ancora decenni perché le cose tornassero a posto nel mio sentire. Eppure, già allora, non mancava nessun elemento per comprenderne la spietatezza. Il racconto che amavo di più non era quello del furto o della requisizione del maiale, né quello di mio zio piccolino che era stato salvato da un medico tedesco. Quello che amavo di più era quello dello speck, anche se a me occorsero anni per comprendere l’equivoco linguistico che lo generò e mia madre non credo abbia mai scoperto cosa quella sera il capitano delle SS cercasse in casa sua. Era entrato irato, urlando: “ Speck! Speck! Ich möchte Speck! Volere Speck!” Mia nonna costernata, aveva detto a mia madre ottenne di correre in camera a prendere lo specchio sopra il cassettone. Lei aveva obbedito di corsa e al suo ritorno aveva dato lo specchio al capitano che, trovandoselo in mano, in preda alla fame e all’ira, glielo aveva spaccato in testa.
Esilerante oggi, grandioso e immensamente crudele allora. Che a farne le spese rischiando di ferirsi mortalmente fosse stata la mia mamma bambina, non scalfiva minimamente la mia ammirazione per la mitica e irragionevole cattiveria teutonica.
Fui il generale di un’esercito grandioso e a buon mercato fino al giorno in cui Stefano, come ho detto il mio migliore amico e compagno in quel benedetto e splendente eldorado che ha la ventura di essere talvolta l’infanzia, non si presentò con una scatola di soldatini Atlantic dell’esercito tedesco finemente cesellati in plastica di prima qualità. Mi avvidi subito quando li dispose in formazione che differivano dai miei per più di un particolare. E non era solo una questione di rifiniture e di prezzo: le uniformi, le cartuccere, i mitra, gli elmetti erano proprio diversi.
Guardai la scatola finemente illustrata con indicazioni storiche, data, bandiera: Pattuglia della Wermach, esercito tedesco, 1943-1945. La bocca mi si asciugò istantaneamente e quasi tremante ne raccolsi uno confrontandolo con uno dei miei molto più grezzi e approssimativi e… com’ho detto, molto diversi.
Era una domenica mattina, mio padre che la guerra l’aveva quasi fatta e i tedeschi li conosceva bene per averci avuto a che fare dopo lo sbandamento, sedeva a tavola sonnecchiando con la grande testa poggiata in avanti sul tavolo. Non avevamo divani o poltrone allora. Lo riscossi: “Babbo, che soldatino è questo, di che esercito è?” gli domandai passandogli il soldatino di Stefano. Lo guardò a lungo, attentamente. Poi mi disse: “Questo è un tedesco, non v’è dubbio, erano proprio così. Uniforme, elmetto con la piega, pistolmachine, questi mitra, erano proprio così i tedeschi!”.
Per poco non caddi svenuto ai suoi piedi. Sperando che non fossero davvero stati proprio tutti così, gli passai il mio soldatino. L’esaminò con attenzione, poi disse: “Non so, certo non è un tedesco, lo vedi anche tu. Esercito italiano direi, forse americano!”
Non aveva finito di rispondere e già singhiozzavo, corsi via asciugandomi gli occhi. Stefano, in piedi vicino a me guardò mio padre e allargò le braccia senza capire. Nessuno poteva capire. Bocconi sul mio letto, il volto affondato nel cuscino piangevo di disperazione e giuro che seguitai a piangere per giorni. Il mondo mi era crollato addosso. Possibile che con una parola, centinaia di soldatini tedeschi, di fascisti canaglie e cattivi come piacevano a me, si fossero trasformati in americani o italiani buoni a nulla e mollaccioni? Fu il mio 8 settembre del 1943 e ne soffrii molto. Rammento che lasciai perdere i soldatini per lungo tempo, giocavo solo con i pochi e inequivocabili indiani e cow boy che avevo. Il mio glorioso esercito non era più lo stesso, aveva perso per sempre il fascino donatogli dalla sua supposta crudeltà.
Molti anni dopo avrei incontrato uomini veri, in carne ed ossa, a cui era accaduto lo stesso. Anziani reduci dai campi di prigionia, italiani che dopo l’8 settembre, in Grecia, Albania e nei territori occupati, una manciata di parole trasmesse dalla radio aveva trasformato in nemici. Tutti erano stai deportati in gran numero da pochi tedeschi con l’inganno e divenuti loro malgrado schiavi di Hitler, oppure, in rari casi, erano morti combattendo come a Cefalonia. Ad ascoltarli e raccontarli avrei dedicato un lustro della mia vita. 600.000 soldatini in molti poco più che ventenni, più di 60 – 80.000 fra questi non erano più tornati a casa. Tutti, vivi e morti, proprio come avevo fatto io da bambino con i miei soldatini voltagabbana, erano stati dimenticati dalla Storia in un fustino di detersivo. Ritrovarli fu forse il mio modo di farmi perdonare. Raccontarli un bisogno che non so spiegare.

2 thoughts on “SOLDATINI di Fabrizio Silei

  1. Stupendo Fabrizio,mi sono commossa,mi è piaciuto molto.
    Il termine ( si ravversava i capelli ) è bello mi ha portato indietro come il tuo racconto.
    Grazie !!!

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