L’occhio di Nerone

Cataract_in_human_eye

Noi eravamo neri, ma lui era più nero di noi, la sua pelle sembrava d’inchiostro, così lo chiamavamo Nerone. Alcuni dicevano che al suo paese era stato uno stregone e che era meglio non guardarlo troppo a lungo se non si voleva rischiare che ci attaccasse il malocchio. Ma noi ragazzini che vivevamo nelle baracche e nei buchi scavati nel tufo sotto al ponte della grande autostrada, noi, sebbene lo temessimo, non potevamo distogliere gli occhi da lui. Il fatto è che era impossibile non guardarlo: indossava un logoro cappello a cilindro e un lungo cappotto con il collo di pelliccia anche d’estate e veniva a vendere la roba lì da noi. Il suo cappotto brulicava di pulci salterine e i capelli ricci erano tempestati di pidocchi, così era difficile distinguere gli uni dalle altre. Ma non era quello che ci interessava e non ci importava neanche della grande pistola che portava infilata nei calzoni a righe gialle e blu: tutti ne avevamo una. Quel che ci attraeva era il suo occhio di vetro, il malocchio appunto. Era quello che non smettevamo di guardare per tutto il tempo. Il vecchio Munvo, che aveva quasi quarant’anni, ci diceva di smetterla di guardargli quell’occhio di vetro azzurro perché se se ne fosse accorto ci avrebbe ucciso. Diceva che una volta lo aveva visto uccidere un bianco per quel motivo.
Tutte storie, pensavo io, Nerone era contento che glielo guardassimo perché sapeva che lo volevamo. Si sentiva invidiato ed era felice. Quando aveva perso l’occhio buono in una lite con i portoricani della zona bassa del fiume, era andato fino in città e un medico gli aveva asportato l’occhio vero irrimediabilmente ferito per mettergli quell’occhio di vetro d’un azzurro brillante e terso come il cielo.
Avremmo dovuto invidiare la sua roba, i soldi che ci faceva, e invece, come gatti storditi dalla benzina, continuavamo a farci di colla e a sragionare su quell’occhio di vetro e su quello che ci avremmo fatto se l’avessimo avuto noi. L’occhio del malocchio, l’occhio dello stregone che avrebbe realizzato ogni nostro desiderio.
Poggiato con la schiena a un vecchio furgoncino del gelato senza ruote di cui rimaneva uno scheletro di ruggine, Bastu disse agitando le mani come farfalle e sgranando gli occhi sorridenti:
«Se lo avessi io quell’occhio gli direi di portarmi qui Manolita e poi…» Non finì la frase e fu preso da un riso convulso ed eccitato che lo fece piegare in avanti fino a toccare con la testa per terra.
Anch’io aspirai dal sacchetto, sentii l’aria calda salire e bussare come un grande pugno compatto e invisibile oltre il mio naso e la mia fronte premendo direttamente sul mio cervello. Non so che mi prese. Sul cavalcavia, giù oltre il giallo grigiastro delle sterpaglie scorreva un treno di signori, di quelli che abitavano nella città vera, con i figli che andavano tutti i giorni a scuola e sembravano tante signorine. Pensai allora ciò che avevo pensato tante volte: se avessi avuto l’occhio di Nerone mi sarebbe piaciuto salire su quel treno, entrare nella città di cemento, scappare via per sempre dal tufo e dalla discarica di rifiuti che ci nutriva, per andare a scuola e imparare a leggere e scrivere. Così avrei saputo leggere cosa diceva il libro che avevo rubato rompendo il vetro di un’auto parcheggiata lungo la statale qualche mese prima. Lo sfogliavo la sera dentro il mio buco di fango mentre gli altri preparavano la cena scegliendo gli avanzi trovati fra i rifiuti. Non c’era neanche una figura ma lo sfogliavo lo stesso fino a che la rabbia per la mia impotenza mi costringeva a chiuderlo. Gli altri mi guardavano e ridevano beffardi. «Cosa fai, leggi? Cosa leggi?» Li odiavo quando facevano così. «Almeno io ho un libro!» Gli urlavo. «Voi non avete neanche quello!» «Che te ne fai di un libro se non sai leggere?» Ribattevano. Ma io non gli badavo e mi davo importanza: «Io ho un libro, può essere un libro di poesie o storie d’amore o d’avventura. Può essere un’altra vita o un libro di formule magiche!» Non avevo mai conosciuto mio padre e mia madre mi aveva lasciato lì prima di andarsene via con il suo grande amore che la picchiava tutte le sere.
Anch’io avevo un grande amore, ed era il mio libro. Se fossi andato a scuola avrei imparato a leggerlo e dopo avrei letto tutti i libri del mondo.
Così in quel pomeriggio polveroso che bruciava la gola e rivoltava lo stomaco per l’odore di copertoni bruciati che ammorbava l’aria, mi alzai risoluto e dissi:
«Bisogna prenderglielo. La prossima volta che torna lo uccidiamo e gli prendiamo l’occhio.»
Gli altri si fermarono impietriti e mi guardarono. «Non dirai sul serio?» mi disse Michelovic che era rosso e secco come un chiodo rugginoso e tremava all’idea di affrontare Nerone.
Gusman si mise a piangere e a ridere insieme e ad aspirare all’impazzata dal suo sacchetto di colla:
«Ci ucciderà tutti con la sua pistola. Tutti!» e rise, d’una risata grottesca che risuonò alta nel cielo, fra le volute di fumo nero, come una speranza.
«Sì!» dissi risoluto, meravigliandomi io stesso delle mie parole, «quando torna lo attireremo con una scusa fino al pozzo della vecchia centrale elettrica e lo uccideremo per prendergli l’occhio».
Angiò mi si avvicinò, mi sovrastava in altezza di quasi venti centimetri e ci teneva a decidere lui ogni cosa per essere il capo:
«Non crederai che sia davvero magico? Se lo fosse perché Nerone se ne andrebbe in giro pieno di pidocchi e fatto di crac come un cammello?»
«Forse perché non sa desiderare nient’altro. Ma io so cosa desiderare» dissi convinto. Avevo bisogno di credere in qualcosa.
Scosse la testa e rise di gusto. Poi si piegò lanciando un sassolino contro la fiancata del furgone dove era appoggiato Bastu.
Temendo che gli altri mi considerassero più coraggioso di lui disse: «E va bene. Lo uccideremo per prendergli l’occhio. E poi voglio chiedere all’occhio una grande cassa di Coca Cola e mangiare un pollo arrosto come quelli che fanno vedere alla tv.»
Rimasi fermo a guardare un enorme camion della spazzatura girare oltre la curva dietro la collina di ghiaia per svuotare il suo stomaco ai piedi di un’altra collina fatta di rifiuti, di topi grandi come gatti e di strida di gabbiani impegnati a combattersi a colpi di becco nell’aria livida.
«Andiamo, è arrivata la cena. Corriamo prima che i gabbiani e i bambini si mangino tutto.»
La settimana dopo gli altri non ci pensavano più, ma io sì e quando il piccolo Zandia corse con le sue gambe secche ad avvertirci che era arrivato al villaggio Nerone e stava vendendo il crac ai ragazzi più grandi, il cuore iniziò a battermi all’impazzata.
Munvo era arrivato a quarant’anni perché non si era mai fatto di crack o di colla, e così avevo deciso di smettere anche io. Smettere di sognare e di ridere come un ebete per sgombrare la mente dai rifiuti, come si sgombra un garage per far spazio a un camion. Quel camion, lucido e perfetto era il mio piano per prendere l’occhio di Nerone.
Avevo pensato a tutto per giorni e giorni e quando detti il segnale tutti corsero a mettersi al loro posto ed io corsi da Nerone. Attesi in disparte, cercando di non tremare e di farmi coraggio, finché non ebbe completato i suoi traffici, poi mi avvicinai e tirandolo per il pastrano lo costrinsi a voltarsi.
«Mi guardò quasi meravigliato che avessi osato tanto.»
«Cosa vuoi ragazzino? Vattene!»
«Ho un affare da proporti» dissi fissando il suo occhio di vetro. L’altro occhio scuro e brillante si agitava vacuo e minaccioso, ma era un nulla a confronto della sfera viscida e vitrea che mi contemplava dall’altra orbita.
«Tu un affare da propormi?» rise.
«Ho una cosa bella che può interessarti» dissi.
Si chinò fino a me e sentii il suo odore scorgendo le miriadi di pidocchi che camminavano su i suoi capelli da rasta. Mi porse l’orecchio mormorando: «Avanti, di che si tratta?»
«Oro» dissi. «Un bellissimo medaglione d’oro.»
Sorrise mostrando i denti gialli e mi abbracciò tirandomi in disparte e prendendo a camminare al mio fianco.
«Dove l’hai preso, dov’è? Fammelo vedere.»
Avevo pensato a tutto.
«Non ci crederai, l’ho trovato nella spazzatura. È incredibile quante cose i ricchi della città sempre ubriachi come sono, buttano con la spazzatura.»
«Avanti dammelo!»
«Non ce l’ho qui. L’ho nascosto» dissi fissandolo nel profondo azzurro incantato dell’occhio. «Tu però devi darci del crack e un po’ di soldi.»
«Certo, certo. Ma dammelo» insisté scuotendomi malamente.
«Non ce l’ho con me, l’ho nascosto, è qui vicino. Vieni con me e concluderemo l’affare».
Mi seguì malvolentieri, borbottando che non aveva tempo da perdere e minacciando di farmela pagare cara se non avessi davvero avuto l’oro.
Arrivammo nel posto concordato. Vidi la testa di Bastu sbucare da dietro una pompa in disuso e ritrarsi ma per fortuna lui non ci fece caso. Sperai che fossero tutti svegli e ben nascosti o per me sarebbe stata la fine.
Lo portai al centro del piccolo avvallamento e mi chinai ai suoi piedi scostando una pietra. Poi presi un medaglione di latta gialla di quelli che regalavano nei detersivi e che davvero avevamo trovato nella discarica.
Glielo porsi, l’esaminò appena e subito mi guardò incredulo. Poi risoluto lo lanciò via e si portò la mano al revolver per prenderlo e spararmi. Mi gettai a terra e gridai: «Ora!»
Alcuni secondi erano passati senza che succedesse nulla, strinsi i denti terrorizzato, poi finalmente, mentre il suo braccio si risollevava con la pistola in pugno, gli spari iniziarono a fischiare nell’aria. Lo sentii urlare e imprecare mentre i proiettili gli attraversavano il petto, e alla fine mi cadde addosso imbrattandomi con il suo sangue. Aveva anche l’altro occhio sgranato e mentre dalla sua bocca usciva una matassa di sangue brillante come vernice, lo sentii mormorare: «Perché?»
Tutti vennero fuori urlando eccitati e fatti di colla come cobra sbronzi, gli vuotarono le tasche, presero la droga, i soldi e Angiò prese la pistola, premette la punta della canna sotto l’orbita dell’occhio di vetro e lo estrasse soppesandolo nella sua mano. Disse malamente: «Voglio un pollo arrosto e della Coca Cola!» attese un attimo guardandosi intorno. Poi mi guardò sarcastico e mi disse: «È questo che volevi?» Ero a terra stanco, tremante, sfinito. «Sì, sì.» mormorai e lui me lo lanciò perché lo afferrassi al volo.
Felice e contento, imbrattato di sangue odoroso, con il vento fra i capelli, il mio libro nella tasca posteriore dei pantaloni e l’occhio stretto nella mano, corsi fino alla statale che portava in città.
«Voglio andare a scuola! Voglio andare a scuola!» gridai perché il mio occhio magico mi sentisse.
Al centro della mia mano, con tante piccole nervature azzurre, luccicò quasi per rispondermi e fu proprio in quel momento che comparve uno dei furgoni festonati delle suore della carità.
«Una zuppa calda e la parola del Signore!» mi disse una di loro e mi fece salire.
Salii stringendo il mio occhio nella mano e mi portarono con sé, mi lavarono, mi vestirono e mi mandarono a scuola.
«Lo sapevo» mi ripetevo in quei giorni guardando l’occhio di notte al caldo fra lenzuola pulite in una cella di convento di cemento. «Lo sapevo che eri magico!». E pensavo ai miei compagni che mi avevano visto sparire con l’occhio e non avevano saputo più nulla, come nei miracoli.
Studiai e pregai per giorni e giorni. No, non il loro dio che non valeva nulla, ma il mio occhio, l’occhio di Nerone che portavo in tasca, il fuoco rubato agli dei.
E così piano piano venne il giorno in cui potei leggere il mio libro, iniziai dal titolo affascinate e incomprensibile: «Campionario di ricambi odontotecnici.»

(Aprile 2008)