Perseguitati

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In questi giorni ripenso spesso a Lea e Miriam, due bambine salvate, insieme a un’altra loro sorella, da Amina e suo Marito Umberto tanti anni fa, vicino casa mia. E’ una storia che non ho mai scritto e non scriverò mai. Ci ho provato, ma dopo averla raccontata tante volte ai ragazzi, ho concluso che ci sono storie che non possono essere scritte, ma solo raccontate. Questa è una di quelle.
Incontrai Lea e Miriam Della Riccia con i loro mariti a Montecatini terme in occasione del conferimento del riconoscimento di Giusta fra le Nazioni ad Amina e suo marito Umberto, era il 2004. Mi accolsero nel salottino di un grande hotel in Montecatini alto. Miriam lasciò raccontare alla sorella Lea: “E’ lei che racconta!” disse. Conservo anche un video VHS di quell’intervista, ma non ho mai avuto bisogno di rivederlo perché la loro storia mi si è scolpita in testa così come me la raccontò quel giorno Lea.
Quel giorno mi domandarono anche come mai c’era questa ostilità degli italiani nei confronti dello stato di Israele, perché mai fosse così diffuso quello che percepivano come un sentimento filopalestinese. Mi dissero della loro sorella forse, o di un altra ragazza della loro famiglia, non ricordo con esattezza, che era morta durante il servizio militare, obbligatorio, lì da loro, anche per le donne. Di un Paese in cui hai paura a prendere l’autobus e a mandare i figli a scuola. Paura di una telefonata che ti annunci che non torneranno mai più. Non seppi cosa rispondere loro. Non avevo voglia di mettermi a parlare della sinistra italiana e di fare analisi sociostoriche più o meno strampalate. Capii però che quella era una domanda rivolta a me, a una persona a cui stavano consegnando, regalando, un pezzo della loro storia. Era come se mi domandassero, fra le righe, se anche io ce l’avevo con loro. C’era una profonda tristezza e apprensione negli occhi di queste persone che avevano perso i genitori e una parte della loro famiglia e del loro mondo ad Auschwitz.
“Sei nostro amico o no? Sei con noi o contro di noi?” questa è la domanda che, più o meno coscientemente, si pongono sempre i sopravvissuti.
Non dimenticherò mai quello sguardo, quel tentativo di capire e cogliere nell’altro il pregiudizio. Ci sono vite, esistenze, per cui la persecuzione non ha mai fine, per le quali la sensazione di starsene tranquilli, in pace, a casa propria sembra un sogno irraggiungibile. Persone che hanno provviste per anni nella dispensa, piani di fuga pronti, progetti mentali di come farebbero a bere o a nascondersi o difendersi in casa propria ricavando anfratti fra due pareti. Persone che vivono con la paura che accada ancora. E’ la stessa paura dei palestinesi sotto le bombe anche se è più difficile vederla. E la paura, si sa, fa vivere male ed è un cattivo consigliere. La paura impedisce la pace, alimenta l’odio, l’eccesso di reazione sul quale contano coloro che vivono e hanno un ruolo solo fino a che ci sarà paura e guerra fra questi due popoli. E intanto a morire e ad aver paura, da entrambe le parti, sono i civili, i padri e soprattutto le madri, che vorrebbero solo vivere tranquille e crescere bambini che non si sveglino piangendo la notte e non rischino di essere uccisi dall’odio che divide quella terra.

Il bambino scarafaggio

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Di fronte alla morte di un bambino, di un solo bambino, si dovrebbe farla finita, proclamare lutto nazionale da entrambe le parti e giurarsi reciprocamente di non farlo mai più. Ma così non è fatto l’uomo, la colpa è degli altri e i leader dormono tranquilli. Dormono tranquilli? Certo, perché non tutti i bambini sono uguali. Una cosa sono i nostri bambini e una cosa i bambini degli altri. Chi non ha sperimentato, quell’impulso profondo che colpisce le madri quando dividendo una torta danno, quasi casualmente, la fetta più grande al proprio figlio? Oppure no, la danno all’ospite, il che è lo stesso frutto della reazione a quell’impulso, ostacolato con la ragione. Chi dovendo scegliere chi salvare, salverebbe il figlio di un altro e non il proprio? Neanche per le maestre i bambini son tutti uguali, e quanto si arrabbiava mio figlio per le ingiustizie e le preferenze. Ma qui si va oltre. Qualcuno ha accostato infelicemente le foto dei bambini ebrei con le mani alzate a quelle dei bambini palestinesi uccisi. Accostamento infelice, non rigoroso, storicamente sbagliato. Eppure, nel nazista che uccide il bambino ebreo e nel soldato israeliano o nel militante arabo che uccide il figlio degli altri, il futuro degli altri, c’è la medesima idea di fondo: quel che ho ucciso non era un bambino come i miei, era un bambino del nemico, un topo, uno scarafaggio, una peste da eliminare con ragione e senza rimorso dalla faccia della terra.
Nel caso degli israeliani non può non sbalordire che a sparare sui civili e i bambini siano i figli e i nipoti di coloro che (alcuni ancora vivi) per miracolo sfuggirono al medesimo odio razzista, con le debite differenze imparagonabili di dimensione e logica, naturalmente. Il risultato finale, la morte del bambino scarafaggio, è comunque molto simile, direi lo stesso.
E adesso occorrerebbe una bella chiusa efficace, magari di speranza a questo mio ragionamento. Purtroppo però non ce l’ho, né voglio avercela. Cerco solo solo di non vedere scarafaggi nei figli degli altri, più di quanto non li veda nei miei.