EDUCATORI MALEDUCATI

Due notizie hanno colpito in questi giorni chi, come me, lavora con i bambini e i ragazzi e si aggira per scuole, biblioteche e istituti superiori. La prima è quella relativa a diversi casi di genitori che, per difendere i loro pupilli, non hanno esitato a picchiare gli insegnanti dei propri figli o renderli oggetto di altre carognate; la seconda quella di alcuni presidi che nell’autovalutazione della propria scuola hanno inserito come punti di forza la mancanza, o il limitato numero di ragazzi provenienti da altri paesi, diversamente abili, o poveri.
Le due notizie sembrano scollegate, ma non lo sono affatto, e mi spingono a condividere questa riflessione circa il clima culturale che oramai da anni si sta diffondendo nel nostro Paese.
Che non ci sia più, o si sia da tempo logorato e, infine, rotto il patto fra gli adulti educatori è innegabile. La storiella che quelli della mia generazione – ho cinquant’anni – portano ad esempio a mo’ di barzelletta è semplice, ma esplicativa: “Se tornavo a casa da scuola e dicevo a mio padre che la maestra mi aveva dato uno schiaffo, lui mi chiedeva: da che parte? E paff! Me ne dava un altro sull’altra guancia”.
Certo è vero che ci si guardava bene dal riferire al genitore cosa si era combinato, del brutto voto o del rimprovero preso, per non essere puniti o sgridati ulteriormente. In quel mondo era in atto una silenziosa battaglia fra l’infanzia (bambini/ragazzi), da un lato, e gli adulti educatori, dall’altro. Non è che mio padre non fosse in grado di percepire i limiti della maestra, la sua ottusità o ingiustizia, magari addirittura, per usare un gergo oramai antico, classista, (e quindi che che colpiva anche lui semplice manovale tramite me) ma, comunque stessero le cose, lui sarebbe sempre stato dalla parte della maestra, perché come lui adulta; perché rappresentante dello Stato e con la responsabilità di educarmi all’osservanza delle regole e, come si diceva, a fare il mio dovere.
Era addirittura troppo, se ci pensate, ma gli schieramenti erano chiari. Basta leggere Pinocchio, La guerra dei bottoni, e tanti altri classici per ragazzi per trovarci frotte di bambini e ragazzi monelli, birbe matricolate da raddrizzare, in perenne fuga dal maestro e dal padre. Loro sbagliati e il mondo adulto saggio e giusto, impegnato a raddrizzarli con metodi più o meno cruenti.
Oggi, invece, le alleanze sono mutate. Indebolitisi i legami di comunità, divenuta incomprensibile l’idea di Repubblica o Stato, ridottasi a poca cosa ogni forma di gratuità e di volontariato, l’unità di riferimento torna ad essere quella tribale, anzi di più, il clan familiare. Quando la famiglia regge, intendiamoci, perché l’insoddisfazione e l’insuccesso sono sempre in agguato in una società fondata sul singolo. Per non parlare del fatto che una società che venera denaro, consumo e successo è inevitabilmente una società violenta, dove vige la legge del più forte, ognuno pensa per sé e ci si illude di vincere da soli.
Così, quando la famiglia regge, ci troviamo di fronte a genitori con atteggiamenti giovanilisti, che non invecchiano più, dal momento che non è loro permesso, che si comportano come i loro figli e si identificano con essi: sono loro amici, fanno i compiti al posto loro, trepidano per gli esami e le bocciature, proiettano su di loro speranze e frustazioni. Lottano per la loro famiglia contro tutto e tutti. Politica, Stato, tasse e scuola sono loro nemici. Ciò che viene fatto e detto ai loro figli è fatto e detto a loro. Si reagisce con denunce, proteste, perfino, quando non si hanno altri strumenti, con la violenza. In un mondo così la colpa è sempre dell’altro e spesso dell’insegnante, che non è della nostra famiglia, quindi è un nemico e un incapace, almeno che non si limiti a lodare noi e i nostri figli.
Se per mio padre l’insegnante era un pubblico ufficiale, una persona colta, con una posizione sociale invidiabile, oggi, in una società dove conta solo il successo economico, l’insegnante e la sua cultura non sono più invidiabili, sono incomprensibili, se non addirittura risibili.
Anni fa ho fatto incontri in quartieri siciliani dove la mafia fa da padrona, dove i genitori sono spesso agli arresti domiciliari e le madri mandano avanti la famiglia. Ricordo una preside coraggiosa che per aver denunciato dei ragazzi che durante la notte si erano introdotti nella scuola rubando i computer e altre attrezzature senza badare alle telecamere, era stata picchiata dalle madri di fronte ai carabinieri impotenti. In quella scuola scendendo le scale dopo aver parlato dei fratelli Rosselli e di poesia, dei ragazzini da cima le scale mi urlarono con disprezzo: “Arruso!” cioè omosessuale, in dialetto. Un maschio adulto, che parlava di poesia, di cultura, di Costituzione, per la loro cultura era da disprezzare, da offendere, forse anche da picchiare.
Era una situazione limite, mi chiedo quanto lo sia ancora.
La cultura ha ancora un valore, o è solo un mezzo per guadagnare molto? E se pur avendo cultura non si guadagna molto, allora a che serve? Niente greco o latino, niente arte, ma informatica, inglese e impresa. Non è questo il messaggio che è passato in questo Paese oramai da decenni?
Nonostante ciò alla scuola, ai libri per ragazzi, allo Stato, viene chiesto di educare. Non c’è problema, fatto, evento spiacevole che non faccia dire a qualche politico o opinionista: dovrebbe pensarci la scuola. Certe cose dovrebbero impararle a scuola. Una schizofrenia disperante.
Il vero problema è che noi ci poniamo come educatori, ma rischiamo di essere educatori maleducati. Quando leggo dei presidi che comunicano al Miur per ben figurare di non avere ragazzi diversamente abili nelle loro scuole, extracomunitari, immigrati, poveri, mi viene da piangere e mi metto le mani nei pochi capelli rimastimi.
Noi stiamo dicendo ai nostri figli che saranno felici solo se avranno fama e fortuna, che si vince da soli e non tutti insieme, che chi sta peggio è da lasciare indietro, da evitare, se non, come succede in questi giorni con alcuni senza tetto, da picchiare. Certo non ce ne rendiamo conto, sono idee, come direbbe James Hillman, che ci possiedono proprio perché non sappiamo di possederle. Quando esasperiamo il giudizio e la valutazione, lasciamo indietro, bocciamo, dividiamo anziché creare legami, stiamo diseducando i nostri figli con l’esempio comportandoci da maleducati.
Il vero problema è che siamo giunti oramai a un paradosso: non di rado i ragazzi e i bambini sono più educati dei loro genitori e dei loro insegnanti. Basterebbe guardare come stanno insieme e si comportano i più piccoli, che alto senso del gruppo e dell’ingiustizia essi posseggono quando vengono al mondo e camminano nelle prime classi delle elementari per capire che basterebbe ripartire da loro*. Basterebbe provare a farsi educare dai nostri figli seguendo il loro esempio. Sì, perché è soprattutto con l’esempio che si educa. Inutile che un genitore o un insegnante che non leggono dicano: Leggi! Che fumano, dicano: non fumare! Che escludono, dicano: accogli! Che non fanno la propria parte dicano: impegnati!
Si vince se si vince tutti insieme. Si va avanti se hanno capito tutti. Si aiuta chi è più debole. Ci si entusiasma per la scoperta di cose nuove, non importa se non immediatamente spendibili. Non si giudica l’altro, ma lo sia aiuta. Le persone non sono il loro stigma. Non importa quanto si ha, ma come si è, e così via.
Occorrerebbe riscoprire questi ed altri semplici valori educativi, condividerli con le famiglie, ricominciare a parlarsi fra noi adulti, sforzarsi di accettare il tempo che passa, agire coerentemente con essi, per uscire dalla crisi in cui viviamo e ricominciare a creare legami e a educare a testa alta. Certo, più facile a dirsi che a farsi. È una ragnatela enorme quella che ci lega agli altri, ognuno può tesserne solo una piccola parte, ma alla fine il disegno che ne uscirà fuori sarà il mondo in cui vivere con i nostri figli. Ogni giorno incontro insegnanti stupendi, volenterosi, genitori pieni d’amore e di buone intenzioni, ognuno di loro ha un ago e un rotolo di spago e fa del suo meglio per dare un senso al disegno complessivo, per cucire la sua parte di ragnatela. Sono convinto che molti altri potrebbero dare una mano, se solo riprendessimo a parlarci.

*Nel mio romanzo L’Università di Tuttomio, Il castoro editore, succede proprio questo, il mondo è salvato dai ragazzini, per dirla con Elsa Morante, che educano gli adulti.