Ho visto quelle foto

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Foto di F.Silei

Ho visto quelle foto. Avrei voluto non vederle, perché una cosa è sentire una notizia alla radio, come avviene oramai tutti i giorni, un’altra è vedere. Per questo, io che pure, a quasi cinquant’anni, di foto terribili ne ho viste tante, non riesco a postarle. Non ci riesco per la violenza che c’è nel mostrare tanto orrore. Non ci riesco, anche se ammiro il coraggio di chi le ha fatte (credo il cinereporter Nino Fezza), se condivido la rabbia di chi ha voluto mostrarle alla nostra indifferenza, al nostra assuefazione al male quando il male è, o ci sembra, degli altri. Stanotte ho sognato quelle foto. Un incubo, foto di bambini morti, gonfi, lividi e fradici, portati di notte dal mare freddo su una spiaggia come grosse conchiglie. Rannicchiati come ciottoli nella risacca del bagnasciuga, gli abiti mezzi, i calzoncini tirati giù, la maglia quasi sfilata dalla furia delle onde. Immagino chi li ha raccolti, prima di chiuderli nei sacchi. L’istinto di madre, la pena, con la quale i tardivi soccorritori avranno ravversato loro i capelli, ricomposto gli abiti per un senso, come si dice, d’umana, quanto oramai inutile e impotente, pietà. Bambini veri, come quelli che incontro ogni giorno della mia vita nelle scuole, per strada, al supermercato e che mi strappano sempre un sorriso per la loro dolcezza e unicità. Bambini come quelli per cui scrivo, che immagino ridere, riflettere, intristirsi, man mano che vado avanti con la storia. Lo spiritoso, il disturbatore, la filosofa… Ciascuno con il suo carattere, con il suo modo di sorridere, di litigare. Una vita così simile alla nostra, a quella dei nostri figli, da fare, stupidamente, assurdamente, per questo ancora più male, più rabbia. Sì, ho visto quelle foto… tanto più terribili perché non mostravano bambini degli anni trenta ridotti pelle e ossa oramai più di settant’anni fa in un lager, né bambini di etnie e costumi lontani che soffrono la fame come da anni oramai ci mostra la TV nel tentativo di suscitare la nostra pietà e chiederci un aiuto per questa o quella organizzazione umanitaria. No, niente di tutto questo, ho visto quelle foto e quelle foto mostravano i nostri figli. Gli stessi abiti, le stesse scarpe, gli stessi volti. Quelle foto mostrano il nostro fallimento e il nostro destino. Quelle foto ci dicono che i nostri bambini non sono al sicuro, che se domani dovessimo fuggire dall’orrore e dalla guerra per salvare la pelle, nessuno per quanto vicino verrebbe a prenderci, a soccorrerci. Che i nostri vicini alzerebbero muri di filo spinato. Che saremo costretti a partire di notte con la nostra famiglia su un gommone troppo pieno o chiusi a chiave in una stiva, a spendere i risparmi di una vita per poi affogare miseramente nel mare e, con noi, i nostri figli, i nostri bambini. Ho visto quelle foto, le ho sognate. Vedendole qualsiasi madre che abbia un figlio non può fare a meno di pensare che l’avrebbe preso lei piuttosto uno di quei bambini, una di quelle famiglie. Di rispondere a chi dice: “Se li porti a casa sua” e fomenta l’odio e l’egoismo di nuovo di gran moda in Europa: “Sì, me li prendo a casa mia. Mille volte me li sarei presi a casa mia prima di vederli così”. E, invece, abbiamo chiuso loro la porta in faccia, abbiamo fallito un’altra volta. Ho visto quelle foto e in quelle foto terribili l’Europa è un’espressione geografica, l’Onu una sigla da mandare a memoria nei libri di scuola, e noi… francamente, nonostante tutti i nostri gadget e i nostri lustrini, siamo dei disgraziati e ci dovremmo vergognare.

Jamal del mattino

Questo racconto l’ho scritto nel 2009, quando Giovanni e Marta mi hanno raccontato di jamal, uno dei tanti bambini che Giovanni ha incontrato nei suoi viaggi di geologo. Mi sono preso la libertà di cambiargli lavoro e qualche altra cosetta. Impossibile pubblicare un racconto così in Italia, non è da ragazzi, né da grandi, è un racconto e basta, sull’Africa.

giovanni

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IL BAMBINO CHE PORTAVA IL MARTELLO

di Fabrizio Silei

 

A Giovanni e Marta che hanno conosciuto Jamal

Io sono Jamal, Jamal del popolo del mattino: gli Oromo. Io sono Jamal il piccolino ed abito l’immensa prateria sotto il cielo più grande che c’è, in un paese chiamato Etiopia.
L’Etiopia per mio padre e per mio nonno non è nulla; c’è solo il villaggio per loro e i grandi laghi, ma per me l’Etiopia è un paese color arancio grande quanto la mia mano. È il mio Paese e lo indico con il dito sulla grande carta geografica del maestro che mostra tutti i paesi dell’Africa, e scandisco il suo nome: E-T-I-O-P-I-A. Io, Jamal, vado a scuola e so molte cose che mi ha detto il maestro.
C’è anche l’Italia su quella carta geografica, piccola piccola e verde. La posso coprire con un dito della mia mano. Ha una forma buffa. È da lì che viene Giovanni, ma a lui non l’ho detto che l’Italia è piccola piccola, per paura di offenderlo. Non sta bene dire queste cose, e in ogni caso, il signor Gamaachu che trasforma le parole di Giovanni nelle mie e viceversa, non avrebbe mai riferito una cosa così maleducata.
Quando il maestro arriva con la sua moto suona una tromba e ci chiama a raccolta. Allora noi usciamo tutti dai tukul di fango e corriamo dietro di lui come giovani antilopi.
Non l’abbiamo neanche fatto scendere di moto l’altro giorno, il maestro, e gli abbiamo dato la notizia urlando tutti insieme a gran voce: «Ci sono degli stranieri, ci sono degli stranieri! Ci sono dei bianchi vicino alla collina!»
Al pomeriggio siamo andati tutti insieme a spiarli da lontano, mentre grattavano la terra di un piccolo altopiano, tutti vestiti di chiaro, tutti bianchi, come tanti fantasmi.
Ci facevano segno di avvicinarsi, ma nessuno di noi ha avuto coraggio all’inizio. Solo poi, piano piano, ci siamo avvicinati.

Sono vecchio? No che non sono vecchio! Sono nel pieno degli anni, eppure… eppure stavolta non sarei voluto partire. Abbiamo dovuto rimandare la spedizione di una settimana. Ne ho parlato con il rettore. Ormai era tutto pronto e non volevo rinunciare. Non volevo partire e non volevo rinunciare.
«Mi dia solo una settimana» gli ho detto.
Ha fatto di sì con la testa rinnovandomi le sue condoglianze.
Pensavo di essere pronto. Sapevo che sarebbe accaduto. Forse mi ero illuso di pensarci di meno, di superare il fosso d’un balzo, quasi come se nulla fosse. Ma ha ragione Marta: un padre è sempre un padre, per quanto anziano possa essere.
È stato come se nel salto qualcuno mi avesse sfilato un mattone da sotto il piede d’appoggio. Sono caduto, adesso debbo solo rialzarmi, scuotermi la terra di dosso e procedere.
Non riuscivo a pensare che a lui e al nostro rapporto fatto di silenzi e di ostinazioni, di frasi non dette, carezze taciute. Ostinati, entrambi, come cervi reali in lotta: tutta la vita a spingersi. E adesso? Chi spingo adesso?
Pensavo tutte queste cose mentre l’aereo, un vecchio boing dell’Alitalia, planava su Addis Abeba e gli altri del gruppo cicalavano per l’eccitazione che dà l’Africa ogni volta che ci torni.
La prima volta che scesi su questo aeroporto più di trent’anni fa si vedevano gli animali selvatici nella prateria: gruppi di gnu e di zebre. Allora, davvero, l’Africa era l’Africa. Oggi non si vede nulla di nulla. Gli alberi sono stati tagliati per la legna da ardere, gli animali uccisi, braccati, venduti, mangiati. Mi fanno pena i giovani ricercatori che guardano fuori dal finestrino e pensano di vedere l’Africa. Questa di oggi è solo una parvenza di ciò che fu. “Sta morendo anche l’Africa!” ho pensato. Muore l’Africa, figuriamoci gli uomini, figuriamoci se non doveva morire un vecchio dinosauro testardo come mio padre.

Mio nonno la sera racconta storie di giaguari e di iene e di coraggiosi guerrieri. Qualche volta racconta anche storie d’amore e ride mostrando i denti radi e coprendosi gli occhi con le mani lunghe e rugose.
Mi dice: «Lasciate perdere i bianchi. Meglio non averci a che fare!»
Ma quando ci annoiamo io e gli altri ci ritroviamo sempre lì a guardare. Come se quegli uomini che scavano sulla collina fossero una grande calamita e noi dei piccoli chiodi neri.
Io sono il più piccolo e anche quello che ha meno paura. Giovanni fa un gioco con la moneta. La fa sparire e poi la tira fuori dal mio orecchio. Tutti ridono e lui si gratta la barba bianca imbarazzato. Poi mi passa il suo martello. Fra tutti lo passa proprio a me che sono il più piccolo e mi fa capire che devo portarlo io. Gli altri mi vengono intorno e vogliono toccarlo, ma è mio e l’interprete dice loro:
«Lasciatelo fare, l’ha dato a lui!»
Così, io che sono il più piccolo e non contavo nulla sono diventato Jamal: il bambino che porta il martello del professore italiano.

Jamal è sveglio, mi segue e sorride e quando mi chino sulla terra e la tocco capisce subito che deve passarmi il mio martello da geologo. Mi guarda con quei due occhioni neri e si fa serio come per domandarmi: «Ma cos’è che cerchi?» Io gli parlo e gli racconto del progetto e della spedizione, anche se so che non può capire l’italiano. Anche gli altri ascoltano e sorridono, ma lui sorride più di tutti perché porta il martello.
Oggi faceva caldo, gli ho messo il mio cappello color sabbia che gli copriva gli occhi. Quando l’ha tirato indietro per vederci la sua bocca si è aperta in un grande sorriso d’orgoglio. Gamaachu, la nostra guida mi ha detto: «Signore, lei non deve fare così, lo vizia troppo.»
Poi la sera intorno al fuoco ho chiesto a Gamaachu perché tutti i bambini piccoli hanno la testa rasata tranne che per un ciuffo sopra la fronte. Lui mi ha guardato strano e mi ha spiegato la faccenda:
«La maggior parte di loro muore prima di raggiungere i 10 anni di età e le loro madri credono che lasciando quel ciuffo l’arcangelo Gabriele possa afferrarli meglio quando salgono al cielo e portarseli con sé in Paradiso.»
Ero lì a cercare le ossa di un dinosauro vissuto milioni di anni fa e non capivo cosa succedeva sotto il mio naso.

Oggi con il cappello sembravo un uomo, io Jamal, il bambino che porta il martello, sono salito da solo con Giovanni sul dorso della collina. Lui guardava la terra serio. Io non capisco ma so che quel che stiamo facendo deve essere una cosa importante, molto importante.
Stasera la pancia mi ha fatto tanto male perché Giovanni da qualche giorno non fa altro che darmi biscotti. Non mi piacciono molto, hanno un sapore strano. Ma li mangio per farlo contento e per placare la fame.
Poi Gamaachu mi ha spiegato che cercano un di-no-sau-ro. Una specie di grande drago, di enorme lucertola.
«Io non l’ho mai vista!» gli ho detto e lui ha riso scuotendo la testa.
«Cercano il suo scheletro, sotto terra: è morta milioni di anni fa.» mi ha spiegato.
Quando il maestro l’ha saputo ci ha portato un libro pieno di questi mostri e ci ha assicurato che sono esistiti davvero. Io non ci credevo, chi vogliono prendere in giro, mi sono detto, ma lui l’ha giurato e mio nonno, la sera mi ha raccontato una storia che parla di uomini come noi, etiopi dell’etnia Amara che venivano dalle campagne e che erano stati generati da un drago. Mi ha detto che lo raccontava suo nonno e che tutto quel popolo è figlio dei draghi, di quei grandi rettili che abitavano la terra tanto tanto tempo fa. Allora ci ho creduto.

Forse c’è qualcosa sotto quella collina, ma domani ce ne andremo, torneremo verso casa. Fine del finanziamento, fine della missione. Risultato? Un po’ di dati, rivelazioni, ossa di vari animali troppo giovincelli, niente Brachiosaurus. Almeno per ora.
A sera abbiamo smontato l’accampamento e ci siamo messi a caricare i camion e le jeep. Quando al villaggio l’hanno saputo sono corsi tutti, anche i ragazzi. Jamal correva più forte di tutti anche se era il più piccolo.
Allarmatissimo gridava: «Giovanni! Giovanni!» e sventolava il cappello.
Quando è arrivato l’ho preso in braccio e l’ho alzato su. Parlava e parlava e toltosi il cappello me lo ha messo in testa.
«Aveva paura che partisse dimenticando il suo cappello!» mi ha spiegato la guida.
«No, No!» ho detto sorridendo con la gola asciutta e rimettendogli il cappello in testa. « Tuo! È tuo! Te l’ho regalato!»
Gamaachu ha tradotto e Jamal ha sorriso, mi ha abbracciato e in italiano ha detto: «Grazie! Grazie, Giovanni!»
Mi vergognavo a commuovermi di fronte agli studenti e ai ricercatori che guardavano la scena. Mi sono fatto forza, l’ho messo a terra contento.
«Torneremo l’anno prossimo. Te lo prometto!»
«E io ti porterò il martello!» ha detto Jamal subito tradotto da Gamaachu.
«Certo, certo.»
Tornando a casa, in aeroplano, con la testa poggiata al vetro, sono arrivate le lacrime. Sono calate giù lungo le rughe a bagnare la mia barba già bianca. Lacrime per mio padre, troppo a lungo trattenute, per mia madre, per l’Africa, per un dinosauro morto milioni d’anni fa. Ma ero felice.

Giovanni se n’è andato, è volato via con il grande uccello di ferro, ma mi ha lasciato il suo cappello. Gli altri mi guardano e dal cappello sanno che io non sono come loro, che io porto il martello. Ogni tanto vado sulla collina e la studio, toccando la terra come faceva lui. Ci poso l’orecchio per sentire se il grande animale c’è e respira. Certo che c’è. Lo sento respirare. Il prossimo anno sarò più grande e più forte; Giovanni verrà con un martello più grosso e lo tireremo fuori.

Siamo tornati dopo un anno, come promesso, per una nuova missione, confortati dai dati raccolti, più certi del nostro successo. Ai bambini accorsi ho chiesto subito di Jamal. «Non c’è, non c’è!» mi hanno risposto. Al villaggio mi hanno indicato la madre, una ragazza giovane, bella, con gli stessi occhi del figlio.
«Jamal non c’è.» mi dice anche lei, guardandomi negli occhi.
Guardo Gamaachu che ha tradotto. La giovane madre si meraviglia per il mio turbamento, ha un altro bambino legato sulle spalle che sembra un Jamal in miniatura. Lascio cadere il martello per terra ai miei piedi, i ragazzi lo raccolgono, sento le loro voci litigiose mentre se lo contendono a due passi da me.
«Come non c’è?» balbetto incredulo.
La donna mi guarda con un sorriso dolce, e parla: un suono lieve, una musica che non capisco esce dalle sue labbra.
Respiro, mi sfrego gli occhi pieni di sabbia con il dorso della mano:
«Che dice?» domando a Gamaachu.
«Dice: grazie, per aver fatto felice mio figlio.»
Rispondo banalmente che è Jamal ad aver reso felice me, chiedo a Gamaachu di tradurre e mi allontano da lì. Scappo ritornando verso l’accampamento a passo svelto. Cammino sotto il sole caldo, con la testa che mi gira, fra tutta quella sabbia, sotto il cielo più grande e indifferente che c’è, ed è come se ce l’avessi di fronte con il suo martello che mi guarda e sorride pieno di vita. Subito tutti i bambini del villaggio mi sono dietro e uno più grande che ha conquistato il mio martello prende a camminare al mio fianco mentre gli altri protestano. Mi volto e glielo prendo di mano bruscamente senza guardalo. Rimane interdetto, anche gli altri si fermano meravigliati dalla mia reazione e, mentre avanzo nella distesa di sabbia, sento Gamaachu che dice qualcosa a quei ragazzi per cacciarli via.
Due settimane dopo riprendiamo l’aereo ad Addis Abeba, tutti gli studenti hanno la faccia triste per il fallimento della missione. Oramai è certo, siamo stati ingannati da un masso a forma di femore rilevato dal sonar. Niente Brachiosaurus. Niente archi neurali delle vertebre alla base del collo mai prima rinvenuti. Non c’è nulla sotto quella collina. Non c’è più niente qui che possa interessarci. C’è solo l’Africa, la grande madre Africa.


Castelvecchio, 23 settembre 2009

La vita degli altri

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Nella foto Marcella Gori che mi racconta dell’uccisione di suo padre e della sua famiglia a Pratale e mi mostra le foto. Si veda il mio romanzo “Prima che venga giorno” e il saggio “La strage di Pratale” scritto con Francesco Catastini.

 

Primo Levi diceva: “Sono uno a cui si ci racconta.”

So cosa significa. Questa affermazione mi riguarda da sempre.

Siamo sulla spiaggia di Follonica, luglio, il vicino d’ombrellone mi chiede se gli faccio dare un’occhiata al giornale. Ci scambiamo qualche frase di circostanza. Pochi minuti dopo mia moglie mi vede camminare sul bagnasciuga con il signore accanto che muove le mani e parla. A pranzo accennerò al fatto che è un tassista di Milano, ha un mutuo sulla casa di 600 euro al mese, una prima moglie, qualche problema con il ventricolo destro…

Lei mi guarda stupita: «Ma chi ti ha detto tutte queste cose?»

Rassegnato rispondo: «Lui.»

A volte può bastare che chieda l’ora a un’anziana signora alla fermata del tram per ritrovarmi nel dopoguerra, in una lite condominiale, fra i suoi gatti da curare… Mi succede di continuo. Non posso farci niente. Ancor prima della scrittura e del disegno, questo è il mio vero grande-piccolo talento. Inutile chiedermi: «Ma come fai?» Davvero non lo so, succede e basta. E’ come se gli altri intuissero che so semplicemente ascoltare, che conserverò la loro storia in un angolo della memoria, che magari la racconterò un giorno. Detesto il navigatore satellitare e adoro chiedere informazioni, fermare le persone, incontrarle in questa vita, anche solo per un istante. Può capitare allora di ritrovarsi a camminare per una Lucca moderna e dinamica e di colpo, con la scusa di chiedere il nome di una via, di entrare dentro alla bottega di un anziano biciclettaio. È rimasta tale e quale a quelle della mia infanzia: un passo indietro nel tempo. Basta dire: «Che bella!» per ottenere in cambio la sua storia e scoprire che è una storia di orgoglio e di passione, di figli da crescere, forature da rattoppare, amici da incontrare alla sera.

Avevo quindici anni quando mi fermai a parlare con Antonio nel piccolo parcheggio condominiale. Parlavamo del tempo che si rannuvolava ed eravamo quanto di più lontano potesse esistere: un anziano e un adolescente. Ma la nostra invisibilità reciproca si dissolse d’un tratto e mi ritrovai ad ascoltare la sua storia, mi ritrovai dentro a un lager nazista con altri ragazzi italiani. La gola mi si fece piccola ascoltando delle loro sofferenze. Erano 600.000 i militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e più di 70.000 non tornarono mai più a casa. A scuola non me ne aveva mai parlato nessuno.

Anni dopo all’università, raccolsi la storia di Antonio in un piccolo libro-intervista e dopo, tante altre storie di persone come lui. Imparai ad ascoltare, a fare le domande giuste al momento giusto, come piccoli colpi di remo nel lago placido del racconto. Scoprii che ci si può raccontare attraverso le storie e la Storia. Grazie ad Antonio sollevai gli occhi dal mio ombelico e scoprii la vita degli altri. Sì, mi piace dire che sono diventato scrittore quando ho scoperto la vita degli altri.