Jamal del mattino

Questo racconto l’ho scritto nel 2009, quando Giovanni e Marta mi hanno raccontato di jamal, uno dei tanti bambini che Giovanni ha incontrato nei suoi viaggi di geologo. Mi sono preso la libertà di cambiargli lavoro e qualche altra cosetta. Impossibile pubblicare un racconto così in Italia, non è da ragazzi, né da grandi, è un racconto e basta, sull’Africa.

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IL BAMBINO CHE PORTAVA IL MARTELLO

di Fabrizio Silei

 

A Giovanni e Marta che hanno conosciuto Jamal

Io sono Jamal, Jamal del popolo del mattino: gli Oromo. Io sono Jamal il piccolino ed abito l’immensa prateria sotto il cielo più grande che c’è, in un paese chiamato Etiopia.
L’Etiopia per mio padre e per mio nonno non è nulla; c’è solo il villaggio per loro e i grandi laghi, ma per me l’Etiopia è un paese color arancio grande quanto la mia mano. È il mio Paese e lo indico con il dito sulla grande carta geografica del maestro che mostra tutti i paesi dell’Africa, e scandisco il suo nome: E-T-I-O-P-I-A. Io, Jamal, vado a scuola e so molte cose che mi ha detto il maestro.
C’è anche l’Italia su quella carta geografica, piccola piccola e verde. La posso coprire con un dito della mia mano. Ha una forma buffa. È da lì che viene Giovanni, ma a lui non l’ho detto che l’Italia è piccola piccola, per paura di offenderlo. Non sta bene dire queste cose, e in ogni caso, il signor Gamaachu che trasforma le parole di Giovanni nelle mie e viceversa, non avrebbe mai riferito una cosa così maleducata.
Quando il maestro arriva con la sua moto suona una tromba e ci chiama a raccolta. Allora noi usciamo tutti dai tukul di fango e corriamo dietro di lui come giovani antilopi.
Non l’abbiamo neanche fatto scendere di moto l’altro giorno, il maestro, e gli abbiamo dato la notizia urlando tutti insieme a gran voce: «Ci sono degli stranieri, ci sono degli stranieri! Ci sono dei bianchi vicino alla collina!»
Al pomeriggio siamo andati tutti insieme a spiarli da lontano, mentre grattavano la terra di un piccolo altopiano, tutti vestiti di chiaro, tutti bianchi, come tanti fantasmi.
Ci facevano segno di avvicinarsi, ma nessuno di noi ha avuto coraggio all’inizio. Solo poi, piano piano, ci siamo avvicinati.

Sono vecchio? No che non sono vecchio! Sono nel pieno degli anni, eppure… eppure stavolta non sarei voluto partire. Abbiamo dovuto rimandare la spedizione di una settimana. Ne ho parlato con il rettore. Ormai era tutto pronto e non volevo rinunciare. Non volevo partire e non volevo rinunciare.
«Mi dia solo una settimana» gli ho detto.
Ha fatto di sì con la testa rinnovandomi le sue condoglianze.
Pensavo di essere pronto. Sapevo che sarebbe accaduto. Forse mi ero illuso di pensarci di meno, di superare il fosso d’un balzo, quasi come se nulla fosse. Ma ha ragione Marta: un padre è sempre un padre, per quanto anziano possa essere.
È stato come se nel salto qualcuno mi avesse sfilato un mattone da sotto il piede d’appoggio. Sono caduto, adesso debbo solo rialzarmi, scuotermi la terra di dosso e procedere.
Non riuscivo a pensare che a lui e al nostro rapporto fatto di silenzi e di ostinazioni, di frasi non dette, carezze taciute. Ostinati, entrambi, come cervi reali in lotta: tutta la vita a spingersi. E adesso? Chi spingo adesso?
Pensavo tutte queste cose mentre l’aereo, un vecchio boing dell’Alitalia, planava su Addis Abeba e gli altri del gruppo cicalavano per l’eccitazione che dà l’Africa ogni volta che ci torni.
La prima volta che scesi su questo aeroporto più di trent’anni fa si vedevano gli animali selvatici nella prateria: gruppi di gnu e di zebre. Allora, davvero, l’Africa era l’Africa. Oggi non si vede nulla di nulla. Gli alberi sono stati tagliati per la legna da ardere, gli animali uccisi, braccati, venduti, mangiati. Mi fanno pena i giovani ricercatori che guardano fuori dal finestrino e pensano di vedere l’Africa. Questa di oggi è solo una parvenza di ciò che fu. “Sta morendo anche l’Africa!” ho pensato. Muore l’Africa, figuriamoci gli uomini, figuriamoci se non doveva morire un vecchio dinosauro testardo come mio padre.

Mio nonno la sera racconta storie di giaguari e di iene e di coraggiosi guerrieri. Qualche volta racconta anche storie d’amore e ride mostrando i denti radi e coprendosi gli occhi con le mani lunghe e rugose.
Mi dice: «Lasciate perdere i bianchi. Meglio non averci a che fare!»
Ma quando ci annoiamo io e gli altri ci ritroviamo sempre lì a guardare. Come se quegli uomini che scavano sulla collina fossero una grande calamita e noi dei piccoli chiodi neri.
Io sono il più piccolo e anche quello che ha meno paura. Giovanni fa un gioco con la moneta. La fa sparire e poi la tira fuori dal mio orecchio. Tutti ridono e lui si gratta la barba bianca imbarazzato. Poi mi passa il suo martello. Fra tutti lo passa proprio a me che sono il più piccolo e mi fa capire che devo portarlo io. Gli altri mi vengono intorno e vogliono toccarlo, ma è mio e l’interprete dice loro:
«Lasciatelo fare, l’ha dato a lui!»
Così, io che sono il più piccolo e non contavo nulla sono diventato Jamal: il bambino che porta il martello del professore italiano.

Jamal è sveglio, mi segue e sorride e quando mi chino sulla terra e la tocco capisce subito che deve passarmi il mio martello da geologo. Mi guarda con quei due occhioni neri e si fa serio come per domandarmi: «Ma cos’è che cerchi?» Io gli parlo e gli racconto del progetto e della spedizione, anche se so che non può capire l’italiano. Anche gli altri ascoltano e sorridono, ma lui sorride più di tutti perché porta il martello.
Oggi faceva caldo, gli ho messo il mio cappello color sabbia che gli copriva gli occhi. Quando l’ha tirato indietro per vederci la sua bocca si è aperta in un grande sorriso d’orgoglio. Gamaachu, la nostra guida mi ha detto: «Signore, lei non deve fare così, lo vizia troppo.»
Poi la sera intorno al fuoco ho chiesto a Gamaachu perché tutti i bambini piccoli hanno la testa rasata tranne che per un ciuffo sopra la fronte. Lui mi ha guardato strano e mi ha spiegato la faccenda:
«La maggior parte di loro muore prima di raggiungere i 10 anni di età e le loro madri credono che lasciando quel ciuffo l’arcangelo Gabriele possa afferrarli meglio quando salgono al cielo e portarseli con sé in Paradiso.»
Ero lì a cercare le ossa di un dinosauro vissuto milioni di anni fa e non capivo cosa succedeva sotto il mio naso.

Oggi con il cappello sembravo un uomo, io Jamal, il bambino che porta il martello, sono salito da solo con Giovanni sul dorso della collina. Lui guardava la terra serio. Io non capisco ma so che quel che stiamo facendo deve essere una cosa importante, molto importante.
Stasera la pancia mi ha fatto tanto male perché Giovanni da qualche giorno non fa altro che darmi biscotti. Non mi piacciono molto, hanno un sapore strano. Ma li mangio per farlo contento e per placare la fame.
Poi Gamaachu mi ha spiegato che cercano un di-no-sau-ro. Una specie di grande drago, di enorme lucertola.
«Io non l’ho mai vista!» gli ho detto e lui ha riso scuotendo la testa.
«Cercano il suo scheletro, sotto terra: è morta milioni di anni fa.» mi ha spiegato.
Quando il maestro l’ha saputo ci ha portato un libro pieno di questi mostri e ci ha assicurato che sono esistiti davvero. Io non ci credevo, chi vogliono prendere in giro, mi sono detto, ma lui l’ha giurato e mio nonno, la sera mi ha raccontato una storia che parla di uomini come noi, etiopi dell’etnia Amara che venivano dalle campagne e che erano stati generati da un drago. Mi ha detto che lo raccontava suo nonno e che tutto quel popolo è figlio dei draghi, di quei grandi rettili che abitavano la terra tanto tanto tempo fa. Allora ci ho creduto.

Forse c’è qualcosa sotto quella collina, ma domani ce ne andremo, torneremo verso casa. Fine del finanziamento, fine della missione. Risultato? Un po’ di dati, rivelazioni, ossa di vari animali troppo giovincelli, niente Brachiosaurus. Almeno per ora.
A sera abbiamo smontato l’accampamento e ci siamo messi a caricare i camion e le jeep. Quando al villaggio l’hanno saputo sono corsi tutti, anche i ragazzi. Jamal correva più forte di tutti anche se era il più piccolo.
Allarmatissimo gridava: «Giovanni! Giovanni!» e sventolava il cappello.
Quando è arrivato l’ho preso in braccio e l’ho alzato su. Parlava e parlava e toltosi il cappello me lo ha messo in testa.
«Aveva paura che partisse dimenticando il suo cappello!» mi ha spiegato la guida.
«No, No!» ho detto sorridendo con la gola asciutta e rimettendogli il cappello in testa. « Tuo! È tuo! Te l’ho regalato!»
Gamaachu ha tradotto e Jamal ha sorriso, mi ha abbracciato e in italiano ha detto: «Grazie! Grazie, Giovanni!»
Mi vergognavo a commuovermi di fronte agli studenti e ai ricercatori che guardavano la scena. Mi sono fatto forza, l’ho messo a terra contento.
«Torneremo l’anno prossimo. Te lo prometto!»
«E io ti porterò il martello!» ha detto Jamal subito tradotto da Gamaachu.
«Certo, certo.»
Tornando a casa, in aeroplano, con la testa poggiata al vetro, sono arrivate le lacrime. Sono calate giù lungo le rughe a bagnare la mia barba già bianca. Lacrime per mio padre, troppo a lungo trattenute, per mia madre, per l’Africa, per un dinosauro morto milioni d’anni fa. Ma ero felice.

Giovanni se n’è andato, è volato via con il grande uccello di ferro, ma mi ha lasciato il suo cappello. Gli altri mi guardano e dal cappello sanno che io non sono come loro, che io porto il martello. Ogni tanto vado sulla collina e la studio, toccando la terra come faceva lui. Ci poso l’orecchio per sentire se il grande animale c’è e respira. Certo che c’è. Lo sento respirare. Il prossimo anno sarò più grande e più forte; Giovanni verrà con un martello più grosso e lo tireremo fuori.

Siamo tornati dopo un anno, come promesso, per una nuova missione, confortati dai dati raccolti, più certi del nostro successo. Ai bambini accorsi ho chiesto subito di Jamal. «Non c’è, non c’è!» mi hanno risposto. Al villaggio mi hanno indicato la madre, una ragazza giovane, bella, con gli stessi occhi del figlio.
«Jamal non c’è.» mi dice anche lei, guardandomi negli occhi.
Guardo Gamaachu che ha tradotto. La giovane madre si meraviglia per il mio turbamento, ha un altro bambino legato sulle spalle che sembra un Jamal in miniatura. Lascio cadere il martello per terra ai miei piedi, i ragazzi lo raccolgono, sento le loro voci litigiose mentre se lo contendono a due passi da me.
«Come non c’è?» balbetto incredulo.
La donna mi guarda con un sorriso dolce, e parla: un suono lieve, una musica che non capisco esce dalle sue labbra.
Respiro, mi sfrego gli occhi pieni di sabbia con il dorso della mano:
«Che dice?» domando a Gamaachu.
«Dice: grazie, per aver fatto felice mio figlio.»
Rispondo banalmente che è Jamal ad aver reso felice me, chiedo a Gamaachu di tradurre e mi allontano da lì. Scappo ritornando verso l’accampamento a passo svelto. Cammino sotto il sole caldo, con la testa che mi gira, fra tutta quella sabbia, sotto il cielo più grande e indifferente che c’è, ed è come se ce l’avessi di fronte con il suo martello che mi guarda e sorride pieno di vita. Subito tutti i bambini del villaggio mi sono dietro e uno più grande che ha conquistato il mio martello prende a camminare al mio fianco mentre gli altri protestano. Mi volto e glielo prendo di mano bruscamente senza guardalo. Rimane interdetto, anche gli altri si fermano meravigliati dalla mia reazione e, mentre avanzo nella distesa di sabbia, sento Gamaachu che dice qualcosa a quei ragazzi per cacciarli via.
Due settimane dopo riprendiamo l’aereo ad Addis Abeba, tutti gli studenti hanno la faccia triste per il fallimento della missione. Oramai è certo, siamo stati ingannati da un masso a forma di femore rilevato dal sonar. Niente Brachiosaurus. Niente archi neurali delle vertebre alla base del collo mai prima rinvenuti. Non c’è nulla sotto quella collina. Non c’è più niente qui che possa interessarci. C’è solo l’Africa, la grande madre Africa.


Castelvecchio, 23 settembre 2009