KEATON

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No, ridere non si poteva e neanche piangere, le emozioni forti erano bandite perché a lui davano fastidio.
– Non si ride di niente! , – diceva serio a noi bambini e poi, facendosi quasi minaccioso – Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi!
Io e mio fratello trattenevamo a stento le nostre bocche piene di risate, gorgogliavamo come lavandini appena stasati e con un occhio, di soppiatto, tenevamo sotto controllo la sua ira.
Solo alla domenica ridere era concesso, alla domenica, poco dopo pranzo, sullo schermo compariva la scritta: oggi le comiche. Le comiche, quelle sì che piacevano anche a lui, allora sì che si poteva ridere. Peccato che a me le comiche non piacessero, così piene di disastri e di catastrofi che speravo fino all’ultimo potessero essere evitati. Un signore scivolava su una buccia di banana e cadeva, irresistibile, ma a me dava solo infinita pena vederlo lì per terra, umiliato. Stanlio e Olio poi e i loro disastri. Rammento ancora l’episodio del cavallo sul pianoforte, con la casa distrutta. Prima solo un vaso rotto ed io che pensavo: lo possono incollare, nessuno gli punirà troppo severamente per questo, poi, inesorabilmente, il cavallo sul pianoforte e ancora io che speravo, speravo che riuscissero a rimettere tutto in ordine prima dell’arrivo del proprietario. Mio padre invece rideva di gusto, a bocca spalancata, rischiando quasi di morire ed io, io, sconfitto, soffrivo in silenzio per la casa distrutta, per il vaso rotto, per quei due disgraziati che avevano nuovamente perso il lavoro.
Erano i tempi del muto, noi li guardavamo da lontano. Molti di quei film erano stati girati quando in Europa c’era la guerra. Adesso, dieci anni dopo il primo boom, scoprivamo che altrove si era pensato a ridere e a scherzare. Dopo i morti, le macerie, l’orrore, anche noi ci apprestavamo a rispolverare le risate altrui, a rimettersi in pari col tempo. C’era bisogno di ridere, si scopriva che si poteva farlo, si doveva farlo. Ridere dopo Auschwitz? Sì, finalmente ricompariva la satira politica, la voglia di divertirsi, in famiglia si poteva parlare senza temere che i bambini sentissero e riferissero, si iniziava a dimenticare, nascevamo noi, figli di un altro tempo.
Allora erano due periodi diversi, i tempi del muto visti dagli anni Settanta. Rivisto oggi anche quel tempo, la ricostruzione, la lavatrice, la tv in bianco e nero, si mescola e diviene un tutt’uno con quei film, con i personaggi goffi e inesperti di quelle comiche. Mio padre si alzava la mattina prima dell’alba, le spalle cotte dal sole dentro la canottiera di cotone e via con con la nuova vespa 125 primavera, si recava a costruire la nuova autostrada, faceva trillare le mine per aprire una galleria. Contava le micce nascosto, le ascoltava esplodere come tante risate che laceravano il ventre della montagna.
Poi alla domenica rideva anche lui vedendo sullo schermo altri uomini, altrettanto piccoli e inesperti, combinare disastri, fuggire inseguiti dal mondo, arrabattarsi a vuoto per un amore, per una vita migliore.
Io amavo un poco Chaplin per i suoi lieti fini, ma ridere no, per ridere mi occorreva Keaton, Buster Keaton, Keaton il bastardo, che non sorrideva mai. Lui, così tragico e solenne da non sembrare vero, etereo come un angelo e mitico come un eroe. Lui tentava di fare le cose per bene, fuggiva inseguito dalla vita, tragico, non comico, si affidava al caso e vinceva. Arrivava il lieto fine ed allora, solo da ultimo, stemperata la tensione, io iniziavo a ridere, ridere della sua faccia sfigata, di quei sui lieti fini fortuiti, della formica che vinceva mordendo la mano di Dio, ribaltando il corso della Storia e rendendo tutto più giusto e più accettabile.
Invece mio padre si placava e rimaneva incredulo a guardarmi, Keaton non lo capiva, ma non poteva più dirmi – che c’è da ridere?- perché anche Keaton era le comiche.

UNA STORIA DA GRANDI

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“Triste il Paese che ha bisogno di eroi” Bertolt Brecht

È più forte di noi, è un vizio antico. Ci raccontiamo sempre la stessa storia ed è una storia da bambini, da persone che non crescono mai. È la storia dell’eroe salvatore che giunge a mettere le cose a posto, il condottiero, il Messia, il martire, l’uomo della provvidenza con poteri e doti straordinarie. Colui che è onesto anche per noi, coraggioso anche per noi, pronto al sacrificio anche per noi. Qualcuno da supportare, per cui tifare, che ci permetta di stare al caldo nelle nostre case mentre lui avanza e sconfigge il male e risolve ogni problema al posto nostro e per noi. La storia politica italiana a destra e a sinistra è disseminata di uomini della provvidenza più o meno riusciti. Da Benito Mussolini a Silvio Berlusconi, a Matteo Renzi, costoro avranno tanto più successo quanto più la loro narrazione sarà semplice, populista, capace di far sognare. Se la narrazione è troppo difficile, il leader poco affascinante, di solito va poco lontano, ma se ce la sa appena un po’, saremo pronti a seguirlo fino alla rovina o a sostituirlo in corsa con un update, un nuovo uomo della provvidenza in cui credere, capace a suo dire, di arrivare e in tre giorni risolvere ogni cosa a nostro favore.
Inevitabilmente si rimane delusi quando la fiaba si scontra con la realtà e si scopre che il nostro leader è più sensibile ai suoi interessi che hai nostri, che ascolta di più i vari gruppi d’affari e d’interesse che noi. Allora, la narrazione cambia, e entra nella “fase Piazzale Loreto”, più o meno simbolica. Scioperi di chi perde il lavoro e i diritti, scontri con la polizia, e così via. Solo alcuni elettori e fans rimangono fedeli al leader fino alla fine, così identificati con lui da non poter ammettere l’evidenza per non doversi dichiarare a loro volta falliti.
Ci sono poi gli eroi veri, coloro che davvero hanno creduto nei principi della legge e della Costituzione e hanno pagato di persona: i martiri. Falcone, Borsellino, Impastato e tanti altri, persone straordinarie, spesso lasciate sole dal potere, dallo Stato e dalle istituzioni. Storie finite male, ma vere, autentiche, niente demagogia, propagande elettorali, spesso solo lavoro quotidiano e sacrificio doloroso, che diventa pubblico al momento del suo epilogo. Questa storie ci piacciono perché, sebbene non siano a lieto fine, ne abbiamo tanto bisogno per purificarci, per illudersi che esista una possibilità, che un’altra storia italiana possa avere la meglio. Ricordandoli e celebrandoli ci illudiamo tutti, non solo coloro che vivono attivamente su quella strada, di assomigliargli un po’.
Siamo un Paese che non cresce, non solo economicamente, ma soprattutto emotivamente. Che non diventa mai grande e non sa raccontarsi un’altra storia, meno mitica e meno utopica, meno da bambini, ma più difficile e complessa. Una storia dove non c’è un solo grande eroe uomo della provvidenza, dove non ci sono martiri impegnati a lottare contro tutto e tutti, ma ci sono tanti cittadini che fanno il loro dovere e rispettano la legge. Meno eroi e più brave persone, insomma. Di questo abbiamo bisogno. Persone che pagano le tasse, professionisti e artigiani che fanno la ricevuta fiscale, commercianti che fanno gli scontrini, cittadini che non fanno i furbetti ma sanno dire di no alla lusinghe del potere. Imprenditori onesti e attenti al territorio in cui operano, politici che pensano alla cosa pubblica e non solo a se stessi, amministratori sordi alle richieste dei gruppi di pressione e orientati al bene comune, insegnanti che si adoperano per educare al meglio e aggiornarsi, medici che curano a prescindere dagli interessi delle case farmaceutiche, e così via.
Questa è un’altra storia tutta da scrivere, una storia da grandi, dove il Paese e la sua classe dirigente cambiano perché a cambiare, a diventare grandi, a fare uno sforzo quotidiano di eticità e coerenza siamo noi per primi. Un Paese che non ha bisogno di eroi e di uomini della provvidenza ma di raccontarsi una storia da grandi, di una vera e propria rivoluzione culturale.

DUE PENSIERI SU CRISI DEL LIBRO, AUTORI EMERGENTI E NEVROSI DEL MERCATO.

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(foto tratta dal sito www.puoicambiare.com)

Per anni si è detto che il settore editoriale stava e sta a galla grazie al boom che i libri per ragazzi hanno avuto negli ultimi decenni. Complici anche alcuni fenomeni editoriali come Harry Potter e altri, gli editori hanno investito in nuovi autori, nuove proposte, anche italiane.
In un momento già difficile per gli autori emergenti italiani io sono “venuto alla luce” nel 2006 e piano, piano, libro dopo libro ho ottenuto il mio spazio e i mie riconoscimenti, ultimo fra tutti il Premio Andersen Miglior Scrittore 2014. Non si può nel mio caso, avendo scelto la strada della qualità e di libri che rifiutano i giochini alla moda e del marketing, parlare di grandi numeri e grandi vendite, ma qualche piccola sorpresa e soddisfazione posso dire ad oggi di averla avuta, anche a livello internazionale. Insomma, solo per dire che continuo a fare libri e “questo mestiere” meglio che posso, solo se le storie vengono etc, etc. e sentendomi quasi quotidianamente con agenti, editori, colleghi autori, illustratori, librai e bibliotecari ho un punto di vista privilegiato sul settore. Ora, proprio da questo osservatorio privilegiato vorrei fare due considerazioni legate a ciò che vedo accadere intorno e alla contrazione del mercato del libro anche per ragazzi. Una contrazione che, ripeto, pur non avendo mai vissuto grandissime tirature, riguarda anche me e i mie lettori. Tanto che il mio editore di riferimento mi dice quest’anno, l’anno dell’Andersen, che non vuole una novità per Bologna, cosa che da cinque anni è invece sempre accaduta, volendo dare maggior respiro al libro precedente.
Questa semplice notazione mi suscita due pensieri e sentimenti contrastanti, l’uno negativo e l’altro positivo, quasi una speranza diciamo.
Il pensiero negativo è presto spiegato, l’amarezza di non avere una novità romanzo a Bologna per la prima vota dal 2008, ma insomma, sinceramente, niente di che, avrò altri libri creativi che usciranno a Bologna, racconti saranno appena usciti a novembre, e un romanzo che uscirà nel 2015. Insomma, davvero non è un problema. E sarebbe bello se questo dipendesse dal normale alternarsi delle cose, vale a dire giovani autori che arrivano, costituiscono una novità e prendono un po’ di spazio degli autori più consolidati. Temo, invece, che non sia così, che il problema sia proprio riferito ai giovani autori italiani e questa è la parte veramente negativa del primo pensiero: “Se io che sono quel poco che sono, salto il giro di Bologna perché le cose non vanno bene e si fanno meno libri, che fatica deve fare un giovane per farsi pubblicare?”
Era già difficile nel 2008, quando ho pubblicato grazie alla scelta di Donatella Ziliotto “Alice e i Nibelunghi”, adesso, se dovessero togliermi dieci anni e farmi ricominciare daccapo, lo sarebbe ancora di più, sarebbe veramente difficile!
Eppure, una cosa è certa, se girano meno soldi nelle nostre tasche, anche noi che amiamo i libri finiamo per comprarne di meno. Spesso ci affidiamo ai classici, o agli autori consolidati, troppo spesso scegliamo un autore straniero che viene comprato e tradotto dall’editore con risparmio di tempo e di denaro rispetto all’italiano. Sì, lo straniero, almeno che non sia famosissimo, costa di meno, basta tradurlo. L’italiano va seguito, editato, e fa impiegare più tempo e risorse. Per farlo con un nuovo autore, bisogna avere voglia e coraggio e assumersi il rischio.
Il mio appello allora è il seguente:
Compriamo più libri possibile nonostante il momento di difficoltà;
Quando è possibile, la maggior parte delle volte, cerchiamo di scegliere autori italiani (non si tratta di nazionalismo, ma di favorire e far emergere le nostre voci e le nostre storie);
Preferiamo gli autori giovani e non, ma emergenti e di qualità a quelli consolidati (fra cui mi metto oramai anch’io) per dar loro la possibilità di “farsi” e per premiare gli editori più coraggiosi e che investono di più sugli italiani e la ricerca di nuovi autori.

Allora, se il pensiero negativo era questo, vale a dire la preoccupazione per i giovani e meno giovani autori emergenti italiani, quello positivo riguarda quel “dare maggior respiro al libro precedente” che il mio editore tira fuori come spiegazione della non necessità di un altro mio romanzo sul mercato a solo un anno di distanza dal precedente.
Siamo un Paese in cui si legge poco, anzi, pochissimo e dove le famiglie fanno fatica alle volte a comperare più di uno o due libri ai bambini in un anno, tolti gli scolastici, naturalmente.
Ciò nonostante si producono libri in continuazione, in libreria ogni giorno arrivano novità e cambiano gli scaffali. I distributori vogliono le novità, i librari vogliono le novità, gli editori producono novità, gli scrittori scrivono novità, le banche anticipano i soldi su ogni libro fatto o che so io, in una corsa nevrotica che fa sì che i libri passino dalla libreria ma non vi si possano trovare. Per trovare tre, quattro libri, non sempre gli stessi, nel settore ragazzi di una grande libreria, ho dovuto attendere di averne pubblicati, fra romanzi e libri creativi, trentuno.
La metafora è quella di un bambino obeso, il mercato, che non ha più fame e che noi continuiamo a rimpinzare forzatamente anche se risputa fuori il cibo (le rese). Un cibo che spesso è anche cattivo. Naturalmente quel che il bambino-mercato ama di più è il cibo spazzatura, colorato e zuccherato, le varie Beppe Pig di turno che vanno sempre alla grande.
Se la crisi, che prima di essere economica è sempre culturale, servisse, come mi annuncia il mio editore nel mio caso, a far rallentare questa macchina folle e nevrotica che cerca di “mangiare l’uovo dentro la gallina”, a dar respiro e ospitalità in libreria ai libri dandogli il tempo di vivere e di essere letti, ecco, questa sì che sarebbe una bella notizia, credo.

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Mantova è sempre un evento bellissimo per incontrare amici, autori, editori, lettori e tante persone appassionate che amano i libri e le storie. Ma è anche l’occasione per fare tante foto a tutte queste persone e a una città magnifica fra un evento e l’altro. Pubblico qui alcune delle più belle, sperando di far piacere a tutti coloro che ho ritratto. Se così non fosse, basterà un semplice mail a info@fabriziosilei.it e le toglierò immediatamente. Grazie

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Un pittore di strada dipinge Mantova.

Testimoni della memoria, i miei ritratti.

Quando, oramai più di vent’anni fa, ancora poco più che ragazzo, ho scoperto la vita degli altri e, spinto dai miei studi di sociologia storica e dalla mia passione per la memoria, ho iniziato ad intervistare gli anziani del mio paese e non solo per giorni interi ricavandone un numero considerevole di appunti, centinaia di ore di interviste video e audio, ma, soprattutto, dei racconti indimenticabili e alcune delle giornate più piacevoli e senz’altro più forti, emozionanti e formative della mia vita di scrittore e artista, allora dicevo, da subito ho pensato, forse a causa della mia passione per la fotografia e le arti visive, a fotografarne i volti. Un gesto istintivo, ma necessario, che mi pento solo di non aver praticato sempre con la dovuta perizia avendo spesso in uggia il pesante bagaglio di ottiche Zeiss da portarmi dietro con la mia Yashica di allora. Eppure, ripensandoci, fin dalla scuola d’arte, fra tutte le cose che ci sono da fotografare e da disegnare a me interessavano soprattutto i volti, il volto dell’uomo. Quasi disegnarlo o fotografarlo fosse un po’ come carpirne i segreti, la storia. Il nostro volto è ciò che siamo, la nostra comunicazione, la nostra identità e diviene poi specchio, se non di ciò che faremo come pretendeva Lombroso, almeno di ciò che si è vissuto. Il volto come luogo dell’identità e prova del nove del racconto. Giacché i tanti racconti senza volto che leggiamo nei libri sono a pensarci bene, per molti versi incomprensibili. La differenza fra una storia vera e una storia di fantasia è, forse, prima di tutto proprio questa.
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La storia vera ci è raccontata o racconta le gesta e le peripezie di un essere vivente realmente esistito, con un suo volto e una sua identità. La storia fantastica non necessariamente. Sarà per questo che per la copertina del mio romanzo “Se il diavolo porta il cappello” ho ritratto un compagno di scuola di mio figlio che nella mia mente aveva il volto del mio protagonista. Quasi a voler reificare con quel “falso” documento un personaggio vero in cuor mio, verosimile, ma assolutamente di fantasia.
Le storie del Novecento, della guerra e della deportazione che conservo, racconto, e divulgo. Quelle umili storie che ho raccolto, sono solo parole, ma smettono di esserlo e diventano vere e indubitabili, innegabili e certificate quando si collegano idealmente alle immagini dei testimoni che me le narrarono. Sono semplici ritratti in bianco e nero, in bianco e nero come le storie che mi narrarono, ma c’è qualcosa in quei volti che ha a che fare con la dignità e l’umile orgoglio di chi, avendo subito un torto dall’uomo e dalla Storia, ha scelto di testimoniare e di raccontare. Sono foto semplici, senza ardite inquadrature o insolite ambientazioni, ma che cercano di restituire dignità senza indulgere nella retorica. Sono foto fatte in punta di piedi e ognuna di queste foto ci dice qualcosa di queste persone e della loro storia. I loro occhi, il loro modo di sostare di fronte all’obiettivo, il mio tentativo di fermare quell’attimo alla fine dell’intervista senza essere troppo invadente e senza troppo pretendere. Sì, per più di un decennio, prima che le storie sbocciassero dentro di me, la voce maturasse trovando il giusto tono e scoprissi il gusto di raccontare le mie storie e non solo, ho raccolto le storie degli altri e catturato i loro volti con una scatola magica, anche questa, semplice e quasi pacata, si chiama fotografia, magari solo ducumentaristica se volete, eppure è quella che amo di più. Ancora oggi nei miei viaggi fotografare i volti, le persone per strada, la gente che incontro e con cui parlo è un piccolo vizio che mi è rimasto, è forse un modo per portarmi a casa una parte della loro storia e della loro amicizia.

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La moglie del carabiniere Del Monaco Francesco ucciso nella strage nazifascista di San Quirico, mentre guarda la foto del marito durante l’intervista. Sull’episodio ho curato in occasione del 60° della strage la pubblicazione del racconto del curato Don Vincenzo Del Chiaro Le tragiche giornate del 17-19 agosto 1944 in San Quirico Valleriana che racconta minuziosamente l’accaduto e un documentario con le interviste dei testimoni, oggi molti non più in vita, dal titolo Venti croci fra i castagni che spero di riuscire a mettere on line prima o poi.

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Elio Nanetti salvatosi insieme al fratello per una fortuita coincidenza, testimone della vicenda di Pratale e fra coloro che raccolsero i resti delle vittime.

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Nella foto Mirella Lotti, al termine di una delle tante giornate trascorse insieme mostra la foto del padre e del nonno uccisi nella strage nazifascista di Pratale quando lei aveva solo otto anni.
La sua vicenda è narrata nel mio romanzo “Prima che venga giorno” Lineadaria edizioni e Loescher per l’edizione scolastica. Sulla vicenda ho condotto anche una ricerca insieme allo storico Francesco Catastini: La Strage di Pratale: storia e memoria di una strage dimenticata. 23 Luglio 1944. Pagnini e Martinelli editore.

Jamal del mattino

Questo racconto l’ho scritto nel 2009, quando Giovanni e Marta mi hanno raccontato di jamal, uno dei tanti bambini che Giovanni ha incontrato nei suoi viaggi di geologo. Mi sono preso la libertà di cambiargli lavoro e qualche altra cosetta. Impossibile pubblicare un racconto così in Italia, non è da ragazzi, né da grandi, è un racconto e basta, sull’Africa.

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IL BAMBINO CHE PORTAVA IL MARTELLO

di Fabrizio Silei

 

A Giovanni e Marta che hanno conosciuto Jamal

Io sono Jamal, Jamal del popolo del mattino: gli Oromo. Io sono Jamal il piccolino ed abito l’immensa prateria sotto il cielo più grande che c’è, in un paese chiamato Etiopia.
L’Etiopia per mio padre e per mio nonno non è nulla; c’è solo il villaggio per loro e i grandi laghi, ma per me l’Etiopia è un paese color arancio grande quanto la mia mano. È il mio Paese e lo indico con il dito sulla grande carta geografica del maestro che mostra tutti i paesi dell’Africa, e scandisco il suo nome: E-T-I-O-P-I-A. Io, Jamal, vado a scuola e so molte cose che mi ha detto il maestro.
C’è anche l’Italia su quella carta geografica, piccola piccola e verde. La posso coprire con un dito della mia mano. Ha una forma buffa. È da lì che viene Giovanni, ma a lui non l’ho detto che l’Italia è piccola piccola, per paura di offenderlo. Non sta bene dire queste cose, e in ogni caso, il signor Gamaachu che trasforma le parole di Giovanni nelle mie e viceversa, non avrebbe mai riferito una cosa così maleducata.
Quando il maestro arriva con la sua moto suona una tromba e ci chiama a raccolta. Allora noi usciamo tutti dai tukul di fango e corriamo dietro di lui come giovani antilopi.
Non l’abbiamo neanche fatto scendere di moto l’altro giorno, il maestro, e gli abbiamo dato la notizia urlando tutti insieme a gran voce: «Ci sono degli stranieri, ci sono degli stranieri! Ci sono dei bianchi vicino alla collina!»
Al pomeriggio siamo andati tutti insieme a spiarli da lontano, mentre grattavano la terra di un piccolo altopiano, tutti vestiti di chiaro, tutti bianchi, come tanti fantasmi.
Ci facevano segno di avvicinarsi, ma nessuno di noi ha avuto coraggio all’inizio. Solo poi, piano piano, ci siamo avvicinati.

Sono vecchio? No che non sono vecchio! Sono nel pieno degli anni, eppure… eppure stavolta non sarei voluto partire. Abbiamo dovuto rimandare la spedizione di una settimana. Ne ho parlato con il rettore. Ormai era tutto pronto e non volevo rinunciare. Non volevo partire e non volevo rinunciare.
«Mi dia solo una settimana» gli ho detto.
Ha fatto di sì con la testa rinnovandomi le sue condoglianze.
Pensavo di essere pronto. Sapevo che sarebbe accaduto. Forse mi ero illuso di pensarci di meno, di superare il fosso d’un balzo, quasi come se nulla fosse. Ma ha ragione Marta: un padre è sempre un padre, per quanto anziano possa essere.
È stato come se nel salto qualcuno mi avesse sfilato un mattone da sotto il piede d’appoggio. Sono caduto, adesso debbo solo rialzarmi, scuotermi la terra di dosso e procedere.
Non riuscivo a pensare che a lui e al nostro rapporto fatto di silenzi e di ostinazioni, di frasi non dette, carezze taciute. Ostinati, entrambi, come cervi reali in lotta: tutta la vita a spingersi. E adesso? Chi spingo adesso?
Pensavo tutte queste cose mentre l’aereo, un vecchio boing dell’Alitalia, planava su Addis Abeba e gli altri del gruppo cicalavano per l’eccitazione che dà l’Africa ogni volta che ci torni.
La prima volta che scesi su questo aeroporto più di trent’anni fa si vedevano gli animali selvatici nella prateria: gruppi di gnu e di zebre. Allora, davvero, l’Africa era l’Africa. Oggi non si vede nulla di nulla. Gli alberi sono stati tagliati per la legna da ardere, gli animali uccisi, braccati, venduti, mangiati. Mi fanno pena i giovani ricercatori che guardano fuori dal finestrino e pensano di vedere l’Africa. Questa di oggi è solo una parvenza di ciò che fu. “Sta morendo anche l’Africa!” ho pensato. Muore l’Africa, figuriamoci gli uomini, figuriamoci se non doveva morire un vecchio dinosauro testardo come mio padre.

Mio nonno la sera racconta storie di giaguari e di iene e di coraggiosi guerrieri. Qualche volta racconta anche storie d’amore e ride mostrando i denti radi e coprendosi gli occhi con le mani lunghe e rugose.
Mi dice: «Lasciate perdere i bianchi. Meglio non averci a che fare!»
Ma quando ci annoiamo io e gli altri ci ritroviamo sempre lì a guardare. Come se quegli uomini che scavano sulla collina fossero una grande calamita e noi dei piccoli chiodi neri.
Io sono il più piccolo e anche quello che ha meno paura. Giovanni fa un gioco con la moneta. La fa sparire e poi la tira fuori dal mio orecchio. Tutti ridono e lui si gratta la barba bianca imbarazzato. Poi mi passa il suo martello. Fra tutti lo passa proprio a me che sono il più piccolo e mi fa capire che devo portarlo io. Gli altri mi vengono intorno e vogliono toccarlo, ma è mio e l’interprete dice loro:
«Lasciatelo fare, l’ha dato a lui!»
Così, io che sono il più piccolo e non contavo nulla sono diventato Jamal: il bambino che porta il martello del professore italiano.

Jamal è sveglio, mi segue e sorride e quando mi chino sulla terra e la tocco capisce subito che deve passarmi il mio martello da geologo. Mi guarda con quei due occhioni neri e si fa serio come per domandarmi: «Ma cos’è che cerchi?» Io gli parlo e gli racconto del progetto e della spedizione, anche se so che non può capire l’italiano. Anche gli altri ascoltano e sorridono, ma lui sorride più di tutti perché porta il martello.
Oggi faceva caldo, gli ho messo il mio cappello color sabbia che gli copriva gli occhi. Quando l’ha tirato indietro per vederci la sua bocca si è aperta in un grande sorriso d’orgoglio. Gamaachu, la nostra guida mi ha detto: «Signore, lei non deve fare così, lo vizia troppo.»
Poi la sera intorno al fuoco ho chiesto a Gamaachu perché tutti i bambini piccoli hanno la testa rasata tranne che per un ciuffo sopra la fronte. Lui mi ha guardato strano e mi ha spiegato la faccenda:
«La maggior parte di loro muore prima di raggiungere i 10 anni di età e le loro madri credono che lasciando quel ciuffo l’arcangelo Gabriele possa afferrarli meglio quando salgono al cielo e portarseli con sé in Paradiso.»
Ero lì a cercare le ossa di un dinosauro vissuto milioni di anni fa e non capivo cosa succedeva sotto il mio naso.

Oggi con il cappello sembravo un uomo, io Jamal, il bambino che porta il martello, sono salito da solo con Giovanni sul dorso della collina. Lui guardava la terra serio. Io non capisco ma so che quel che stiamo facendo deve essere una cosa importante, molto importante.
Stasera la pancia mi ha fatto tanto male perché Giovanni da qualche giorno non fa altro che darmi biscotti. Non mi piacciono molto, hanno un sapore strano. Ma li mangio per farlo contento e per placare la fame.
Poi Gamaachu mi ha spiegato che cercano un di-no-sau-ro. Una specie di grande drago, di enorme lucertola.
«Io non l’ho mai vista!» gli ho detto e lui ha riso scuotendo la testa.
«Cercano il suo scheletro, sotto terra: è morta milioni di anni fa.» mi ha spiegato.
Quando il maestro l’ha saputo ci ha portato un libro pieno di questi mostri e ci ha assicurato che sono esistiti davvero. Io non ci credevo, chi vogliono prendere in giro, mi sono detto, ma lui l’ha giurato e mio nonno, la sera mi ha raccontato una storia che parla di uomini come noi, etiopi dell’etnia Amara che venivano dalle campagne e che erano stati generati da un drago. Mi ha detto che lo raccontava suo nonno e che tutto quel popolo è figlio dei draghi, di quei grandi rettili che abitavano la terra tanto tanto tempo fa. Allora ci ho creduto.

Forse c’è qualcosa sotto quella collina, ma domani ce ne andremo, torneremo verso casa. Fine del finanziamento, fine della missione. Risultato? Un po’ di dati, rivelazioni, ossa di vari animali troppo giovincelli, niente Brachiosaurus. Almeno per ora.
A sera abbiamo smontato l’accampamento e ci siamo messi a caricare i camion e le jeep. Quando al villaggio l’hanno saputo sono corsi tutti, anche i ragazzi. Jamal correva più forte di tutti anche se era il più piccolo.
Allarmatissimo gridava: «Giovanni! Giovanni!» e sventolava il cappello.
Quando è arrivato l’ho preso in braccio e l’ho alzato su. Parlava e parlava e toltosi il cappello me lo ha messo in testa.
«Aveva paura che partisse dimenticando il suo cappello!» mi ha spiegato la guida.
«No, No!» ho detto sorridendo con la gola asciutta e rimettendogli il cappello in testa. « Tuo! È tuo! Te l’ho regalato!»
Gamaachu ha tradotto e Jamal ha sorriso, mi ha abbracciato e in italiano ha detto: «Grazie! Grazie, Giovanni!»
Mi vergognavo a commuovermi di fronte agli studenti e ai ricercatori che guardavano la scena. Mi sono fatto forza, l’ho messo a terra contento.
«Torneremo l’anno prossimo. Te lo prometto!»
«E io ti porterò il martello!» ha detto Jamal subito tradotto da Gamaachu.
«Certo, certo.»
Tornando a casa, in aeroplano, con la testa poggiata al vetro, sono arrivate le lacrime. Sono calate giù lungo le rughe a bagnare la mia barba già bianca. Lacrime per mio padre, troppo a lungo trattenute, per mia madre, per l’Africa, per un dinosauro morto milioni d’anni fa. Ma ero felice.

Giovanni se n’è andato, è volato via con il grande uccello di ferro, ma mi ha lasciato il suo cappello. Gli altri mi guardano e dal cappello sanno che io non sono come loro, che io porto il martello. Ogni tanto vado sulla collina e la studio, toccando la terra come faceva lui. Ci poso l’orecchio per sentire se il grande animale c’è e respira. Certo che c’è. Lo sento respirare. Il prossimo anno sarò più grande e più forte; Giovanni verrà con un martello più grosso e lo tireremo fuori.

Siamo tornati dopo un anno, come promesso, per una nuova missione, confortati dai dati raccolti, più certi del nostro successo. Ai bambini accorsi ho chiesto subito di Jamal. «Non c’è, non c’è!» mi hanno risposto. Al villaggio mi hanno indicato la madre, una ragazza giovane, bella, con gli stessi occhi del figlio.
«Jamal non c’è.» mi dice anche lei, guardandomi negli occhi.
Guardo Gamaachu che ha tradotto. La giovane madre si meraviglia per il mio turbamento, ha un altro bambino legato sulle spalle che sembra un Jamal in miniatura. Lascio cadere il martello per terra ai miei piedi, i ragazzi lo raccolgono, sento le loro voci litigiose mentre se lo contendono a due passi da me.
«Come non c’è?» balbetto incredulo.
La donna mi guarda con un sorriso dolce, e parla: un suono lieve, una musica che non capisco esce dalle sue labbra.
Respiro, mi sfrego gli occhi pieni di sabbia con il dorso della mano:
«Che dice?» domando a Gamaachu.
«Dice: grazie, per aver fatto felice mio figlio.»
Rispondo banalmente che è Jamal ad aver reso felice me, chiedo a Gamaachu di tradurre e mi allontano da lì. Scappo ritornando verso l’accampamento a passo svelto. Cammino sotto il sole caldo, con la testa che mi gira, fra tutta quella sabbia, sotto il cielo più grande e indifferente che c’è, ed è come se ce l’avessi di fronte con il suo martello che mi guarda e sorride pieno di vita. Subito tutti i bambini del villaggio mi sono dietro e uno più grande che ha conquistato il mio martello prende a camminare al mio fianco mentre gli altri protestano. Mi volto e glielo prendo di mano bruscamente senza guardalo. Rimane interdetto, anche gli altri si fermano meravigliati dalla mia reazione e, mentre avanzo nella distesa di sabbia, sento Gamaachu che dice qualcosa a quei ragazzi per cacciarli via.
Due settimane dopo riprendiamo l’aereo ad Addis Abeba, tutti gli studenti hanno la faccia triste per il fallimento della missione. Oramai è certo, siamo stati ingannati da un masso a forma di femore rilevato dal sonar. Niente Brachiosaurus. Niente archi neurali delle vertebre alla base del collo mai prima rinvenuti. Non c’è nulla sotto quella collina. Non c’è più niente qui che possa interessarci. C’è solo l’Africa, la grande madre Africa.


Castelvecchio, 23 settembre 2009

Come una carezza

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Nella foto con Luisa Mattia e Roberto Denti a Zafferana Etnea.

Un invito come questo, che mi trasmette Giulia, ha il potere di mettermi in crisi perché, pur capendone il senso e la portata, mette il dito nella piaga di chi, come me, cerca di raccontare delle storie illudendosi (o forse è meglio dire: convinto che) le storie possano in qualche modo cambiare l’altro, il mondo, e anche chi le scrive. E’ una patetica illusione che, tuttavia, si basa su una constatazione di fatto: se le storie hanno salvato la vita a me, possono salvarla anche a qualcun altro. Finisce così che, a costo di apparire patetici, si scrivono le proprie storie e si cerca di scriverle onestamente, dicendo quel che secondo noi va detto in un determinato momento, raccontando le storie che ci vengono a svegliare la notte ed esigono d’essere raccontate, fino a che vengono. Ma le storie che si scrivono possono arrivare a incontrare, nel migliore dei casi, qualche decina di migliaia di lettori. Più spesso meno di diecimila, specie adesso in tempo di crisi. Non hanno niente a che fare con Best Seller o fenomeni culturali internazionali dai quali ci si può attendere una qualche influenza sociale, nei modi di dire, nell’immaginario, o che so io. Sono storie per pochi, spesso spacciate a mano nelle scuole e nelle biblioteche da un gruppo di insegnanti o bibliotecari appassionati e volenterosi. Storie che camminano sul passaparola, che incontrano singoli lettori o gruppi, suscitano discussioni ma, insomma, niente a che fare con fenomeni di massa. Questo da una parte riduce la responsabilità di chi le scrive: non si sarà accusati di aver contribuito alla diffusione di grappoli di lucchetti sui ponti d’Italia, d’aver lanciato mode, causato ondate di suicidi come nel caso del giovane Werther, diffuso il turpiloquio fra i giovani lettori, ecc, ecc.
Anche così, però, raccontare storie è una responsabilità. Le storie sono animali selvaggi, come è stato detto, una volta liberate non si sa che cosa combinino nella vita di chi le legge. Consapevoli di questo si continua a raccontare, ma di fronte alla richiesta di una storia che possa aiutare dei bambini che vivono sotto le bombe si rimane sbalorditi e capita di sentirsi impotenti. Viene da pensare che se le storie potessero tanto, dopo Dostojevski, Brecht, Melville, Conrad, Ungaretti e tutto ciò che è stato scritto di profondo e meraviglioso dall’uomo, come minimo non dovrebbero esserci più guerre. Se, come profetizzò Adorno, dopo Auschwitz la poesia doveva essere impossibile, figuriamoci lanciar bombe sui civili. E, invece, nonostante la pace europea, il progresso delle idee nei paesi democratici e quant’altro, le guerre ci sono ancora e questa di Gaza è solo l’ultima in ordine di tempo. Mi si dirà che purtroppo, certi grandi capolavori della letteratura mondiale che hanno cambiato il nostro modo di stare insieme e guardare al mondo, li ha letti soprattutto chi non aveva bisogno di leggerli. Che i dittatori, i fondamentalisti islamici, i poveri del mondo, i mafiosi e così via, non hanno mai letto nulla di tutto ciò e per questo continuiamo ad andar male. Eppure sono certo che molti politici, venditori d’armi internazionali, capi di stato, industriali, li hanno letti eccome. Solo che non è servito, che vedere un bel film o leggere un grande romanzo non significa automaticamente capire o cambiare. Oggi poi, sommersi di storie come siamo, specialmente noi adulti leggiamo per commuoverci, distrarsi, fare recensioni critiche, dire scritto bene e male, quasi nessuno pensa di incocciare in una qualche verità perché, beh, per quella ci vogliono i grandi classici, morti e sepolti, non dei contemporanei con pagine FB.
Allora, stabilito che la letteratura e le storie hanno cambiato il mondo ma non possono cambiarlo, strano ossimoro che ha probabilmente a che fare con lo zoom del nostro obiettivo storico mentale, si può comunque giungere a una distinzione, abbastanza cavalcata, fra storie “impegnate” e storie ” divertenti”, oppure fra “storie belle” e ” storie commerciali”, salvo poi, ed è il destino di ogni storia, passare da l’una all’altra categoria a seconda dei tempi e del momento. Capita così che i cinepanettoni di Lino Banfi diventino con il tempo un classico della commedia all’italiana e della comicità in percorsi d’essai per nostalgici intellettuali della propria pubertà anni 80, e che Geronimo Stilton possa divenire un novello Ulisse per chi lo legge oggi bambino e domani lo ricorderà da una cattedra di letteratura omerica. Tutto può essere, ma certo è che le storie non sono tutte uguali. Le storie servono a tutto e non servono a nulla, e l’unica distinzione che davvero regge alla fine è quella fra storie belle e storie brutte.
Questo per dire che prendere su di sé l’impegno di scriver una storia per qualcosa, tanto più per alleviare le sofferenze o ridonare il sorriso a qualcuno, è il modo sbagliato di di mettersi a raccontare. E’ un modo adulto, meccanicista, nel quale tutti siamo immischiati. Scrivere storie per questo o quello scopo è sempre un modo sbagliato di cominciare a raccontare, e farlo per Gaza e i suoi bambini che si svegliano piangendo sotto le bombe, lo sarebbe ancora di più. Le notizie che abbiamo lasciano davvero senza parole, impotenti.
Rammento che un giorno mia moglie Francesca tornò dal lavoro raccontando del difficile momento che stava passando un ragazzino al quale stava morendo il padre in ospedale. “La madre mi ha chiesto un libro per aiutarlo, che libro potremmo fargli leggere?” Mi domandò. “C’è una storia che possa aiutarlo a superare questo momento?”. Di storie che parlano di genitori malati ne ricordavo diverse, da “Dieci minuti dopo la mezzanotte” a “Un’estate di quelle che non finiscono mai”, non ero certo però che una storia che trattasse di ciò che lui stesso stava vivendo fosse la cosa giusta da fargli leggere e potesse esseregli d’aiuto. Così chiamai Roberto Denti alla libreria dei ragazzi di Milano e gli feci la stessa domanda che mi aveva posto mia moglie. Roberto che di storie ne aveva lette a milioni mi rispose: “Chiedetegli che libri gli piacciono e regalategli quello con più pagine che trovate, così che almeno durante la lettura possa non pensare a ciò che sta vivendo”.
Eppure Roberto era tutt’altro che un teorico del disimpegno. Sapeva però che quella era la domanda sbagliata. Roberto mi ha insegnato a non pensare a una causa effetto immediata quando si tratta di storie. Una storia non è un’aspirina, non ci sono storie per questo e per quello. Le storie divertenti possono essere più “impegnate” delle troppo smaccatamente impegnate. Che quel che conta è che siano buone storie, bene scritte e capaci di rapire e affabulare il lettore.
Anche il bambino più solo e sconvolto può sorridere e gioire di fronte a un bel disegno e una buona storia, non è necessario che parli di guerra, mondo migliore, pacificazioni, amori contrastati, futuri idilliaci. L’importante è il dono, l’occuparsi di lui con una storia o un’immagine dotata di senso e bella. Ciò non salverà il mondo, probabilmente il bambino continuerà ad avere paura e svegliarsi la notte. Il nostro dono sarà solo una carezza, un sorriso, dato da lontano nella speranza che possa essere, anche solo per un momento, contagioso. Non vedo altro modo per rispondere a quell’appello se non questo: l’abbandono di uno sguardo adulto e utopico, la consapevolezza di chi sa che una storia se è buona è gradita sempre, anche sotto le bombe, e che serve a tutto e non serve a nulla, come una carezza.

A desiderar le storie

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa baracca di Pasquale Nasuto maestro napoletano da me fotografata a Cervia molti anni fa.

Le storie vanno desiderate e una volta si facevano desiderare. Adesso le storie sono ovunque, basta aprire un libro, accendere la radio o la tv. Ma non è la stessa cosa: lo stesso le storie vanno desiderate perché vengano e non tutti riescono a farle venire.

I bambini di una volta domandavano le storie ma i grandi erano impegnati o non avevano storie da raccontare. Spesso quei bambini venivano torturati dalle storie recalcitranti.

«Mamma mi racconti una storia?»

«Certo. La vuoi sapere la novella dello stento che dura tanto tempo e non finisce mai? Sì o no?»

Che bello, una storia che non finisce mai: «Sì!» rispondeva il bambino.

«Non si risponde di Sì alla novella dello stento che dura tanto tempo e non finisce mai, allora la vuoi sapere sì o no?»

«No!» purché si svelasse…

«Non si risponde di No alla novella dello stento che dura tanto tempo e non finisce mai. Allora la vuoi sapere sì o no?»…

Che rabbia: per forza la novella dello stento, del tormento, non finiva mai, non iniziava nemmeno!  Ma chi l’aveva inventata una storia cattiva così, che storia non era!?

Ma c’era di peggio. Mio padre aveva circa 3 anni e suo fratello 6, era un’estate bollente e c’era un muratore che lavorava. L’uomo li chiamò: «Bambini, andate a prendermi dell’acqua fresca alla fonte. Così quando tornate vi racconto la storia del nonno.»

I due piccini fecero un bel po’ di strada fino alla fontana desiderosi di ascoltare la storia e quando tornarono restarono a guardare il muratore bere. Dopo un po’ che l’uomo aveva ripreso il lavoro mio zio lo tirò per l’orlo dei pantaloni. L’uomo lo guardò interrogativo.

«La storia del nonno?» domandò il piccino.

«Ah! Già! Il nonno: si ammalò e morì!»

Immaginate la delusione.

Anche oggi i bambini chiedono storie, ma hanno smesso di desiderarle. Accendono da soli la tv e restano ore a guardare, nel migliore dei casi leggono in solitudine. Ma non è la stessa cosa. Niente, neanche la scrittura potrà mai restituire la magia del vecchio che racconta, del burattinaio o del cantastorie, della mamma che legge. Neanche la radio o i video potranno sostituire il miracolo dell’uomo di fronte all’uomo. Per questo uno scrittore deve essere prima di tutto un narratore, uno a cui piace leggere e scrivere, ma prima ancora  ascoltare e raccontare storie. Un essere che sa desiderare le storie e chiamarle a sé con tutto se stesso.