L’olio dei bambini


L’olio dei bambini

di Fabrizio Silei

Avevo un cavallo a dondolo grande quanto quello di Ulisse, e tende di lino alle finestre, e giocattoli pregiati che provenivano da Parigi e da New York. E loro? Loro, invece, non avevano niente. Neanche la terra dove camminavano avevano, che anche quella era mia, di mio padre! Dopo la raccolta delle olive e la frangitura, le loro madri sarabbero tornate con qualche bottiglione di vetro a prendere il loro compenso in olio. Molti di loro comunque, quell’olio, l’avrebbero solo assaggiato per poi venderne la maggior parte per pagarci i debiti: il dottore, le medicine, il veterinario per quella volta che gli aveva curato il mulo, oppure, la pigione arretrata.
Le cantine di mio padre invece straripavano di quell’oro verde e l’ampolla di vetro e d’argento che la cameriera metteva sulla nostra tavola per condire ne era sempre colma. Eppure, nonostante ciò, gli invidiavo. Sì, gli invidavo perché essi erano liberi e invece io dovevo rimanermene in casa ad attendere il precettore per imparare il latino e il francese. Con la fronte appoggiata al vetro della grande finestra della villa stavo a guardarli mentre sfilavano nel piazzale per dirigersi ai campi. Sembrava una festa la raccolta delle olive, un gioco meraviglioso al quale io non avrei mai potuto prendere parte. Avvolti nei loro giacchetti, con i nasi gocciolanti seccati dal freddo, la brucola legata a spalla e il coltellino in tasca, bambini e bambine camminavano a passo sostenuto dietro i loro genitori e sorridevano contenti. Poi, li si sentiva ridere dai campi mentre, con le loro mani minute, raccoglievano le olive cadute fra l’erba. Non andavano a scuola in quei giorni, dovevano aiutare i loro genitori nella raccolta delle olive, delle nostre olive.
Anch’io aiutavo mio padre. A pomeriggio inoltrato saliva su da me mentre mi esercitavo al pianoforte con la signorina Delia.
«Basta così! Andiamo Adriano» mi diceva. «Vieni ad aiutarmi, si va a fare la raccolta delle olive.»
Mi padre era un uomo alto, con il volto sembre abbronzato e i baffi folti come quelli del Re. Famoso per la sua eleganza portava sempre un grande cappelo bianco e dal taschino del suo panciotto pendeva la massiccia catena d’oro del suo orologio svizzero. Non amava essere contrariato e così ogni sera facevamo la raccolta delle olive. Consisteva in questo: Mi mettevo gli stivali di cuoio da cavalerrizzo e sedevo al suo fianco sul calesse, dopodiché, al trotto, ci avviavamo verso i campi. Da lontano si intravedaevano i contadini chinati sulla terra o irti sulle piante a strappare via le olive e brigate di ragazzi e perfino bambini che svuotavano nelle balle i loro corbelli stracolmi dei frutti verdi e preziosi come gemme di giada.
Un giorno, come sua abitudine, mio padre discese dal calessino e si mise a parlare con il suo fattore di com’era andata la raccolta.
«Bene signore. Siamo già a cento sacchi. Vedrà quanto bell’olio faremo quest’anno.»
Parlando si allontanarono per non farsi udire dai contadini. Intanto gli occhi dei ragazzi e delle bambine si erano fissati tutti su di me. Uno di loro mi sorrise facendomi ciao con la mano. In preda all’emozione discesi dal calessino. Mi avvicinai sforzandomi di essere indifferente e cordiale. Con l’abito chiaro mi accoccolai anch’io a raccogliere qualche oliva accanto a loro, la feci passare fra le dita e la posai nel corbello del ragazzo che avevo vicino. Come andavano svelti quei bambini nel brucare le olive. Ci sarei riuscito anch’io se avessi voluto, nonostante a petto a loro avvessi le mani bianche e morbide come quelle di una fanciulla.
«Come vi chiamate signorino?» mi chiese il bimbo che mi aveva sorriso.
«Adriano, e tu?»
«Giuseppe, e lei Antonia, e lui…»
Mentre seguitavano le presentazioni e la mia mano si perdeva fra quelle dei bambini e dei ragazzi che quasi non osavano toccarla per paura di sporcarla, mio padre si avvicinò a me a grandi passi. Mentre io gli ero di spalle chinato e avevo ripreso a raccogliere le olive mi prese per un braccio e mi tirò in piedi di forza.
«Alzati!» m’intimò: «Non vorrai mica sporcarti il vestito. Lascia fare a loro. Non è roba per te questa!»
Mio malgrado gettai l’ultima manciata d’olive nel paniere e lo seguii voltandomi di tanto in tanto a guardare i bambini. Si erano fermati tutti e mi guardavano tristemente, quasi provassero compassione per me. Fra le dita mi era rimasta una sola oliva, la passai fra l’indice e il pollice saggiandone la consistenza e me la misi in tasca.
Ci allontanammo, mi voltai ancora una volta a vedere le colline che degradavano fra le chiome brillanti degli ulivi mentre il sole le arrossava un attimo prima di scomparirvi dietro.
Giuseppe alzò la mano e mi salutò da lontano. Avrei voluto rispondere a quel saluto, ma per paura di mio padre non lo feci.
«Hei dico! Che ti prende di metterti a famigliarizzare con i contadini, a raccogliere le olive? Sarai mica socialista?» mi domandò mio padre e terminata la frase scoppiò in una fragorosa risata.
Mentre procedevamo incontrammo un gruppo di contadini che tornava dai campi lungo la strada. Al nostro passaggio s’inchinarono lievemente e gli uomini sollevarono un attimo il cappello dalla testa in segno di saluto. Mi padre li guardò tutti ad uno ad uno con i suoi occhi neri e attenti. Poi fermò il calesse poco più avanti e disceso torno indietro, li chiamò e si fece incontro al gruppo.
«Buonasera signore! Disse un vecchio del gruppo togliendosi il cappello.»
Ma mio padre non gli badò. Si fece incontro a una donna che teneva stretto in mano il bordo del grembiule.
«Che cosa avete lì?» domandò con voce ferma e autoritaria.
La donna alzò gli occhi timorosa poi disse a voce bassa:
«Due manciate d’olive secche signore. Le ho raccolte per mio figlio che è casa malato e non è potuto venire a fare la raccolta. Gli piacciono tanto!»
Ancora seduto sul calessino vidi da lontano la sagoma scura di mio padre fare un passo avanti in direzione della donna, immaginai i suoi occhi ricolmi d’ira. Il silenzio della campagna d’intorno si fece assordante. Mio padre con un gesto secco e sgarbato strappò via il lembo del grembiule dalle mani della donna e i piccoli frutti neri caddero sul viottolo polveroso.
Non so come, non so perché, ma mi ritrovai a correre verso di loro. Vidi mio padre che in preda a una furia esagerata calpestava quelle due manciate di olive schiacciandole nella polvere della strada.
«Erano tue queste olive?» domandò a voce alta fissando la contadina sulla testa bassa.
«Alzi la faccia e mi guardi negli occhi quando le parlo!»
«Erano sue queste olive!?» urlò.
«No, signore.» borbottò la donna sollevando appena il volto e dai suoi occhi iniziarono a sgorgare lacrime come da una fontana.
«E lo sapete come si chiama chi prende la roba che non è sua?» domandò mio padre ad alta voce a tutta la compagnia. E poi rivolgendosi al vecchio che l’aveva salutato per primo:
«Arturo, questa qui non ce la voglio più a lavorare da me. Guai a voi se la riprendete!»
Il vecchio annuì guardandosi le scarpe, aveva il volto rugoso e lo sguardo domo di un somaro, di uno abituato a prendere nerbate dalla vita senza permettersi di protestare.
Nell’udire quelle parole la donna si gettò ai piedi di mio padre supplicandolo di non mandarla via. Aveva uno sguardo incredulo, disperato.
«C’ho un bambino malato. Non mi mandi via! Perdono! Perdono!»
Urlava come un bue scannato.
Tutto era avvenuto in pochi attimi e io giungendo finalmente sul posto al termine della mia breve corsa guardai quella gente con la testa china, i bambini che si nascondevano fra le gambe dei grandi; la donna bocconi nella polvere e mio padre che era pieno di sé, impettito di fronte a loro. Guardai quella scena e improvvisamente mi misi a piangere: dentro di me colava un olio antico, dolce e amaro insieme che mi raschiava la gola fino a farla bruciare. Lo stomaco mi doleva di rabbia e incredulità e pensavo fra me che, anche se era mio padre, io non avrei mai voluto essere come lui.
«Ma padre! Padre! Perché? Perché? Erano solo poche olive. Perdonatela padre! Non voleva rubare!» lo supplicai guardandolo fisso negli occhi e sentii le gambe farsi flaccide e il mondo prese a girare tutt’intorno: era la prima volta in otto anni di vita che urlavo contro mio padre, che gli domandavo qualcosa che non fosse per me.
Mio padre si voltò, alzò la mano sul mio volto e la tenne un tempo che mi parve interminabile sollevata nell’aria. Chiusi gli occhi in attesa che ricadendo, la sua possente mano bruna mi colpisse. Lo desiderai con tutto me stesso. Che mi colpisse di fronte a tutti per alleviare la mia vergogna.
Invece si fermò, i suoi occhi si spensero. Sembrò perdere sicurezza. Abbassò la mano.
«Per questa volta… Ringrazi il signorino…» disse, e presomi per la spalla mi trasse a sé e ci avviammo di nuovo verso il calesse.
Ed io sentivo il suo forte abbraccio. Le sue dita possenti bruciare sulla mia spalla. Le stesse che avevano strappato il grembiule dalle mani della donna, e udivo in lontananza la voce di lei dietro le nostre spalle che diceva: «Grazie, grazie signorino! grazie…»
E con la mia oliva in tasca avrei voluto fuggire da quell’abbraccio, da quella voce e correre giù per i campi e urlare Giuseppe! Giuseppe! Sto arrivando! Prepara un paniere anche per me! Giochiamo a raccogliere le olive, scherzando, ridendo, mangiando un pezzo di cacio e un poco di pane. Tutti insieme, tutti uguali. senza più latino, senza più pianoforte, solo noi bambini fra le rame argentee degli ulivi.

SI tratta di un vecchio racconto scritto nel 2002.

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