A desiderar le storie

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa baracca di Pasquale Nasuto maestro napoletano da me fotografata a Cervia molti anni fa.

Le storie vanno desiderate e una volta si facevano desiderare. Adesso le storie sono ovunque, basta aprire un libro, accendere la radio o la tv. Ma non è la stessa cosa: lo stesso le storie vanno desiderate perché vengano e non tutti riescono a farle venire.

I bambini di una volta domandavano le storie ma i grandi erano impegnati o non avevano storie da raccontare. Spesso quei bambini venivano torturati dalle storie recalcitranti.

«Mamma mi racconti una storia?»

«Certo. La vuoi sapere la novella dello stento che dura tanto tempo e non finisce mai? Sì o no?»

Che bello, una storia che non finisce mai: «Sì!» rispondeva il bambino.

«Non si risponde di Sì alla novella dello stento che dura tanto tempo e non finisce mai, allora la vuoi sapere sì o no?»

«No!» purché si svelasse…

«Non si risponde di No alla novella dello stento che dura tanto tempo e non finisce mai. Allora la vuoi sapere sì o no?»…

Che rabbia: per forza la novella dello stento, del tormento, non finiva mai, non iniziava nemmeno!  Ma chi l’aveva inventata una storia cattiva così, che storia non era!?

Ma c’era di peggio. Mio padre aveva circa 3 anni e suo fratello 6, era un’estate bollente e c’era un muratore che lavorava. L’uomo li chiamò: «Bambini, andate a prendermi dell’acqua fresca alla fonte. Così quando tornate vi racconto la storia del nonno.»

I due piccini fecero un bel po’ di strada fino alla fontana desiderosi di ascoltare la storia e quando tornarono restarono a guardare il muratore bere. Dopo un po’ che l’uomo aveva ripreso il lavoro mio zio lo tirò per l’orlo dei pantaloni. L’uomo lo guardò interrogativo.

«La storia del nonno?» domandò il piccino.

«Ah! Già! Il nonno: si ammalò e morì!»

Immaginate la delusione.

Anche oggi i bambini chiedono storie, ma hanno smesso di desiderarle. Accendono da soli la tv e restano ore a guardare, nel migliore dei casi leggono in solitudine. Ma non è la stessa cosa. Niente, neanche la scrittura potrà mai restituire la magia del vecchio che racconta, del burattinaio o del cantastorie, della mamma che legge. Neanche la radio o i video potranno sostituire il miracolo dell’uomo di fronte all’uomo. Per questo uno scrittore deve essere prima di tutto un narratore, uno a cui piace leggere e scrivere, ma prima ancora  ascoltare e raccontare storie. Un essere che sa desiderare le storie e chiamarle a sé con tutto se stesso.

 

La vita degli altri

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Nella foto Marcella Gori che mi racconta dell’uccisione di suo padre e della sua famiglia a Pratale e mi mostra le foto. Si veda il mio romanzo “Prima che venga giorno” e il saggio “La strage di Pratale” scritto con Francesco Catastini.

 

Primo Levi diceva: “Sono uno a cui si ci racconta.”

So cosa significa. Questa affermazione mi riguarda da sempre.

Siamo sulla spiaggia di Follonica, luglio, il vicino d’ombrellone mi chiede se gli faccio dare un’occhiata al giornale. Ci scambiamo qualche frase di circostanza. Pochi minuti dopo mia moglie mi vede camminare sul bagnasciuga con il signore accanto che muove le mani e parla. A pranzo accennerò al fatto che è un tassista di Milano, ha un mutuo sulla casa di 600 euro al mese, una prima moglie, qualche problema con il ventricolo destro…

Lei mi guarda stupita: «Ma chi ti ha detto tutte queste cose?»

Rassegnato rispondo: «Lui.»

A volte può bastare che chieda l’ora a un’anziana signora alla fermata del tram per ritrovarmi nel dopoguerra, in una lite condominiale, fra i suoi gatti da curare… Mi succede di continuo. Non posso farci niente. Ancor prima della scrittura e del disegno, questo è il mio vero grande-piccolo talento. Inutile chiedermi: «Ma come fai?» Davvero non lo so, succede e basta. E’ come se gli altri intuissero che so semplicemente ascoltare, che conserverò la loro storia in un angolo della memoria, che magari la racconterò un giorno. Detesto il navigatore satellitare e adoro chiedere informazioni, fermare le persone, incontrarle in questa vita, anche solo per un istante. Può capitare allora di ritrovarsi a camminare per una Lucca moderna e dinamica e di colpo, con la scusa di chiedere il nome di una via, di entrare dentro alla bottega di un anziano biciclettaio. È rimasta tale e quale a quelle della mia infanzia: un passo indietro nel tempo. Basta dire: «Che bella!» per ottenere in cambio la sua storia e scoprire che è una storia di orgoglio e di passione, di figli da crescere, forature da rattoppare, amici da incontrare alla sera.

Avevo quindici anni quando mi fermai a parlare con Antonio nel piccolo parcheggio condominiale. Parlavamo del tempo che si rannuvolava ed eravamo quanto di più lontano potesse esistere: un anziano e un adolescente. Ma la nostra invisibilità reciproca si dissolse d’un tratto e mi ritrovai ad ascoltare la sua storia, mi ritrovai dentro a un lager nazista con altri ragazzi italiani. La gola mi si fece piccola ascoltando delle loro sofferenze. Erano 600.000 i militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e più di 70.000 non tornarono mai più a casa. A scuola non me ne aveva mai parlato nessuno.

Anni dopo all’università, raccolsi la storia di Antonio in un piccolo libro-intervista e dopo, tante altre storie di persone come lui. Imparai ad ascoltare, a fare le domande giuste al momento giusto, come piccoli colpi di remo nel lago placido del racconto. Scoprii che ci si può raccontare attraverso le storie e la Storia. Grazie ad Antonio sollevai gli occhi dal mio ombelico e scoprii la vita degli altri. Sì, mi piace dire che sono diventato scrittore quando ho scoperto la vita degli altri.