L’AMORE PRIMA DEL GIUDIZIO. Una riforma scolastica straordinaria sulle orme di Don Lorenzo Milani e dei grandi maestri di ieri e di oggi.

Pochi giorni fa il papa è volato in elicottero a Barbiana, si è inginocchiato di fronte alla tomba di Don Lorenzo Milani e ha tenuto un bel discorso elogiandone la figura e proponendola come esempio per i preti di oggi e per se stesso. Nel suo discorso rivolto agli ex allievi di Don Lorenzo ha detto: “Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato con piena fedeltà al Vangelo…” Potrebbe sembrare vero tanto sono belle nella giornata di sole la canonica e la chiesetta di Barbiana, rimesse a nuovo e con tanto di piscina azzurra. Il borgo sembra un luogo di villeggiatura e non ha più niente a che vedere con la canonica umida e povera in cui Don Lorenzo non fu chiamato, ma fu esiliato dalla curia, dai preti, dalla Chiesa, sessantatré anni fa. Furono la povertà di quella parrocchia, l’umidità delle mura, il freddo sul monte Giove a causare o accelerare la sua malattia? Nessuno può dirlo, sta di fatto che come ricorda Neera Fallaci nel suo “Vita del prete Lorenzo Milani. Dalla parte dell’ultimo”, Barbiana mancava allora dei servizi più elementari, non c’erano la luce elettrica, né il telefono pubblico e “l’unica strada transitabile si fermava qualche chilometro più in basso. Si saliva alla chiesa per una specie di tratturo fra i boschi che si era formato con il passaggio dei greggi e delle tregge”.
Era Don Lorenzo un prete scomodo, caparbio, combattivo. Un prete che dava fastidio e che fu lasciato solo da tutti. Ciononostante dalla periferia del mondo riuscì a portare avanti la sua missione e un’idea di scuola che ancora fa discutere e riflettere.
Sin dai primi giorni a Barbiana, senza offrir loro da bere, né da fumare, pratiche che considerava pericolose e deleterie, don Lorenzo mette i giovani al lavoro per migliorare la situazione della parrocchia e scrive: “E poi dicono che la gioventù vuole il divertimento. Altri dicono che vuole l’organizzazione. Altri ancora che vuole un ideale di parte. Nessuno può supporre che si possa invitarli a regalare per solo affetto”.
Mi piacerebbe partire da qui in un momento in cui si parla tanto di Buona Scuola e si infarciscono programmi e proclami ideali con parole e concetti degnissimi e a lungo attesi come inclusione, ma poi si continua a inciampare ad ogni passo in vecchi retaggi ancora attivi. Eppure il nostro è il Paese che, dalla Montessori in avanti, più di ogni altro ha dato vita e voce al pensiero sul fare scuola e ha “prodotto” figure straordinarie come quella di Mario Lodi, per dirne una, il maestro scrittore che proprio con Don Lorenzo Milani e i suoi ragazzi ebbe un proficuo rapporto.
Scrive Eraldo Affinati proprio a proposito di Don Milani su Avvenire del 20 giugno scorso riferendosi a “Lettera a una professoressa”: «la scuola italiana ha recepito lo spirito inclusivo che promanava da quelle pagine, basti pensare soltanto alla legislazione sui “diversamente abili”; tuttavia “L’ossessione della campanella e l’incubo del programma” sono ancora pienamente attivi, rilanciati da due nuovi fantasmi di matrice europea: la maledizione burocratica e la smania selettiva. Da una parte ci sono i bilanci delle competenze, dall’altra i test a risposta multipla. Il priore aveva affermato “una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi la conoscenza delle cose”. Una dichiarazione che oggi vale molto perché assume una dimensione planetaria».
Una splendida sintesi della situazione: maledizione burocratica e smania selettiva che male collimano con quell’affetto di cui parlava don Lorenzo Milani. L’affetto del resto non sembra essere una categoria pedagogica utilizzabile e ancor meno l’altra parolaccia della quale riferiva Daniel Pennac, anche lui come me e come tanti, un ciuco con i fiocchi, nel suo “Diario di Scuola”:
“Dai, tu che sai tutto senza aver imparato niente. Il modo per insegnare senza esser preparato a questo? C’è un metodo?”
«Non mancano, certo, i metodi, anzi, ce ne sono fin troppi! Passate il tempo a rifugiarvi nei metodi, mentre dentro di voi sapete che il metodo non basta. Gli manca qualcosa.»
“Che cosa gli manca?”
«Non posso dirlo.»
“Perché?”
«È una parolaccia!»
“Peggio di empatia?”
«Neanche da paragonare. Una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo, in una università, o in tutto ciò che le assomiglia.»
“E cioè?”
«No, davvero non posso…»
“Su, dai!”
«Non posso ti dico! Se tiri fuori questa parola parlando di istruzione, ti linciano!»
“…”
«…»
“…”
«L’amore.»
Già, l’amore. “Ho voluto più bene a voi che a Dio!” dirà Don Milani ai suoi ragazzi. E sta tutto qui, prima ancora che in qualsiasi metodo, il fondamento della sua lezione, ma anche quella di tanti altri maestri che vanno da Mario Lodi a Giuseppe Pontremoli, Franco Lorenzoni, e tanti altri meno noti silenziosi maestri che ogni giorno riescono nell’impresa di destrutturare la follia, la nostra nevrosi consumistica e capitalistica, per ricostruire senso a scuola. Nell’arte di far amare e non odiare Dante, l’arte, la matematica, ma prima ancora lo stare insieme a scuola.
La sintetizzerei così: Non può esistere relazione educativa senza relazione affettiva, senza amore. Amore per la propria materia, per l’insegnamento certo, ma prima di tutto amore per i bambini e i ragazzi, per i singoli con le loro particolarità e differenze da accettare, accogliere, valorizzare senza giudizio. Invece troppo spesso il giudizio e la misurazione si trasformano in sentenza, quando non in pregiudizio, giacché sempre di più prendere un quattro rischia di trasformarsi in questo tipo di società in un giudizio complessivo sulla persona che finisce per valere quattro agli occhi della classe prima e della società poi.
Lo dico spesso agli insegnanti che incontro: oggi voi giudicate, ma sarete voi stessi giudicati alla fine dai vostri allievi. Come? Semplicemente incontrandoli ventenni, e poi uomini e donne adulti per strada. Vi eviteranno come la peste o correranno ad abbracciarvi?
Abbiamo ancora una scuola in cui i nostri bambini e ragazzi siedono per ore a dei banchi di fronte all’insegnante come nella vecchia scuola di Gentile: lo ricordo come una tortura. Ero iperattivo? Non lo so, non c’erano ancora le certificazioni. Una scuola dove, anziché recuperare il pensiero e la dialettica, quelle arti che sin da Plutarco fanno sì che i bambini o i ragazzi arrivino da soli alle soluzioni sotto la guida del maestro facilitatore, si danno le risposte. Poi si pretende che le risposte, le nozioni, siano imparate più o meno a memoria, più o meno meccanicamente, per giungere infine alla verifica. Un processo dove se ne vanno tempo ed energie preziose che potrebbero essere investite in altro modo e che rischia di scoraggiare e demotivare. Come se un buon maestro non sapesse, vendendo ragionare l’allievo, a che punto è e di cosa potrebbe aver bisogno. Così gli studenti vengono classificati, misurati, etichettati, certificati. Ognuno corre per se stesso in una logica competitiva che spezza i legami di comunità anziché crearli. Cosa c’è di più diseducativo?
“Quanto hai preso a matematica?” chiedo a un bambino di terza. “Otto!” mi risponde. E poi: “Ti riguarda che nella tua stessa classe ci siano bambini con l’insufficienza a matematica?”. Ci pensa un po’, poi risponde candidamente: “No!”
Dove è finita la comunità educante, quella che alla scuola di Barbiana rendeva i più grandi e i più avanti maestri dei più piccoli e dei nuovi arrivati. Quella dell’imparare insieme, dell’avanzare insieme, di crescere insieme valorizzando i talenti di tutti.
Questa è al di là dei proclami, una scuola individualista, competitiva, dove i Pennac, gli Einstein e in generale le menti più brillanti rischiano di perdersi, di annoiarsi, di imparare ad odiare ciò che potrebbero amare.
Dico spesso di fronte alla scolaresche e agli insegnati questa frase nelle nostre discussioni: “Avanti, ragionate, non temete di sbagliare! Il bello della scuola è proprio questo: la scuola è un ambiente protetto dove si può sbagliare senza pagare. Nella vita invece, là fuori, se sbagli paghi!”
I bambini mi guardano strano, gli insegnanti percepiscono la vergogna nel sapere che non è così e sentono però che dovrebbe esserlo. Che sarebbe giusto imparare attraverso le storie e il gioco, come fanno da sempre gli uomini, per errori e per successi, divertendosi. Che un bambino dovrebbe alzarsi contento di andare a scuola dove non ci sono urla da caserma, ma si sta insieme in un altro modo. La deriva aziendalista e efficientista (che brutta parola) è penetrata, invece, così profondamente nella scuola e nelle nostre teste da far dimenticare le grandi lezioni del dopoguerra e degli anni ’60 e ’70 del Novecento. L’idea della cassetta degli attrezzi, di saperi immediatamente spendibili e orientati non più alla creazione della persona ma a un presunto futuro occupazionale (rammentate le tre I della riforma Berlusconi? Impresa, Inglese, Informatica) è prevalsa. Così nonostante le belle parole delle varie riforme si legge sempre meno, si abbandona la scuola vista come qualcosa di ostico e noioso, si fatica a trovare una strada e un senso alla propria vita. Questa è la crisi più grave, una crisi culturale prima che economica.
I tanti ragazzini che arrivano all’università amando la scuola, l’Ariosto, Dante, la fisica o la matematica, lo devono alla propria tenacia (oggi si direbbe resilienza) o ad insegnanti straordinari che letteralmente resistono. Che nonostante le mortificazioni quotidiane, con sforzo titanico svicolando fra programmi, prove invalsi, verifiche e consigli di classe, hanno messo avanti la classe come comunità a un amorfo insieme di individui, l’amore per le storie ed i libri alla mania delle verifiche; che hanno saputo inventarsi ogni giorno, giocare, affabulare, incoraggiare e sedurre i loro ragazzi dando senso al loro stare a scuola e stare insieme. Che spesso, per necessità, li hanno giudicati da ultimo e per forza, guardandoli negli occhi e dicendo loro: “Tu Giovanni sei un grande, anche con un quattro in matematica!” Insegnanti che non hanno dimenticato la lezione di Korzack, di Don Milani, di Mario Lodi e di tanti altri, come ad esempio Loris Malaguzzi in Emilia per i più piccoli. Insegnanti che leggono, studiano, vanno al cinema, cercano le storie giuste per i loro ragazzi. Per questi insegnanti, per una scuola colma d’amore, di passione, di dialettica, di pensiero e di rispetto per il bambino e i ragazzi si attende ancora una riforma. Una riforma che restituisca loro importanza, dignità. Una riforma come una marea che porti via dalla nostra testa di adulti la nevrosi del giudizio e dell’autorità restituendo ai nostri insegnanti l’autorevolezza e la responsabilità dei grandi maestri.

Tutti i diritti riservati Fabrizio Silei 2017

A viso aperto. La barba bambina

L’anno scorso di questi tempi, verso metà autunno, chissà perché, cominciai a lasciar crescere più del solito la mia barba. Fu per pigrizia credo, ma ben presto mi avvidi del risultato. In principio fui io l’unico a dedicare attenzione alla cosa, e da lì a poco quello che divenne il mio barbiere, anche lui barbuto, sebbene più giovane di me di qualche decennio. Ho sempre portato la barba un po’ lunga, ma qua si trattava, seguendo la moda corrente, di trasformarla in una barba vera e propria. Quando per caso entrai nel negozio dall’insegna Barberia, mi avvidi subito di essere nel posto giusto. Tutto intorno e sulle relative poltrone dal sapore vintage sedevano giovani dalle lunghe e folte barbe, e alle pareti foto e disegni di modelli irsuti e pubblicità di prodotti per barbe e baffi. Subito provai un certo imbarazzo con la mia barba arruffata e appena un po’ lunga, di fronte a quei fenomeni della natura. Ma da qualche parte occorreva pur cominciare. Quando fu il mio turno il barbiere si prodigò con sollecitudine in spiegazioni, sul baffo, che sarebbe divenuto folto, sulla barba, bella e completa – come ebbe a dirmi solleticando la mia vanità – che fra qualche mese mi avrebbe allungato il volto tondo. Dopo un trattamento mistico a base di gesti eleganti, panni bollenti, schiume emollienti, ritocchi, scontornamenti a rasoio e oli, uscii dal tempio con il borsello notevolmente alleggerito recando meco una busta che conteneva una spazzola di kotibé, un legno rarissimo, e di pura setola di cinghiale, dell’olio al profumo di rosmarino fabbricato in Italia e diversi campioncini di pomate varie. Avevo desistito dal comprare una spazzola più piccola per i baffi, ma ciononostante non avevo badato a spese deciso com’ero a cambiare la mia vita e prendermi cura della mia nuova creatura e tramite lei del nuovo me stesso che m’attendeva. Oramai quasi calvo, io che ero stato un capellone in gioventù, vicino alle soglia dei cinquanta che avrei compiuti da lì a pochi mesi, potevo mostrare al mondo un secondo fulgore e una barba tenera e formidabile, con due baffi ben guidati, che presto mi avrebbero trasformato in un incrocio fra l’arcigno Mosé di Michelangelo e il ritratto ad olio di un preside risorgimentale. Subito la mensola del mio bagno, previa una ricerca famelica in Internet, si riempì di ogni sorta di prodotti da barba i cui marchi urlavano l’orgoglio di appartenere alla casta dei barbuti, a questa nuova razza sovrumana, ed io, che fino ad allora usavo un pezzo di sapone di Marsiglia per tutta la mia persona capelli e barba compresi, divenni protagonista di una nuova affettazione per me e per la mia barba, o meglio per me tramite la mia barba. Indugiavo narcisicamente di fronte allo specchio per ore in operazioni di shampoo, schiume frenate, oli, pomate e gel rinforzanti e modellanti dal costo esorbitante. La barba grata crebbe, sempre più rigogliosa, con i complimenti del mio barbiere che mi incitava a seguitare nell’impresa scolpendomela letteralmente e dando al mio volto nuova forma. Trattavisi di una barba un po’ ispida, nonostante i diversi emollienti impiegati, striata di bianco sul mento e per lo più oramai sale e pepe. Presto l’effetto curioso fu quello di avere una sorta di coda di puzzola attaccata al mento, e se il volto ne risultò più lungo, sicuramente per i baffi imponenti e davvero formidabili e quella strisciata bianca sulla bazza, risultai anche più vecchio di quanto già non sembrassi, senz’altro! Il bello della barba è proprio questo, che ti cresce piano piano e le persone dopo che ce l’hai sono pronte a giurare che l’hai sempre avuta tale quale. Fu così in generale tranne che per una mia vicina di casa che si complimentò con me per il mio nuovo look, elogiando la mia bella barba. Non so dirvi quanto l’amai in quel momento e come gli fui grato. Sebbene oramai cinquantenne, quella barba era nuova di zecca, una barba bambina che come tale rinnovava anche me trasformandomi in un altro e nascondendo per metà al mondo la mia faccia da cane bastonato. Era una barba da accudire, cullare, carezzare, amare, come un neonato. Purtroppo però, anche mia moglie finì per accorgersi di lei. Da giorni l’aveva notata, senza dire niente, non osando interferire con il mio nuovo hobby, e anch’io mi ero accorto del suo silenzio a proposito. Solo al momento di baciarla non riusciva pienamente a nascondere la sua riluttanza e il suo fastidio finché ammise che “le sembrava di baciare una palla di pelo!” e finì così per evitare di farlo del tutto. A domanda diretta: “Ti piace o no la mia barba!?” cercò di non rispondere e guardando il ben di dio di flaconi allineato sul mobiletto del bagno, ammise solo che detestava il profumo di rosmarino che aveva quando la ungevo: le sembrava di baciare un arrosto di vitello. Tentai di ovviare comperando altri oli, per scoprire che detestava comunque anche quello di sandalo, tarassaco, radicchio e così via.
Infine ammise che la mia barba… non che non le piacesse, ma…
“Sì…?” domandai.
Faceva di me un altro, un uomo nuovo appunto, che però non era quello che aveva sposato e amato fino a quel giorno. Rincarò dicendo che era come se avessi sul volto una maschera, qualcosa di posticcio che nascondeva il mio vero volto. La parola posticcio mi sconvolse letteralmente. Forse avevo la faccia più lunga, ammise, certo non si vedeva più il doppio mento, potevo perfino sembrare più autorevole e interessante, ma… lei preferiva l’altro, con la barba un po’ incolta e la faccia tozza di un bradipo. Quello che se la tagliava da sé e se la sciacquava con un po’ do sapone di Marsiglia. Il vecchio me stesso, insomma, quello che invecchiava con lei giorno dopo giorno a viso aperto e che aveva sposato.
Uscii di casa sbattendo la porta spazientito, come una moglie a cui il marito abbia fatto un commento poco carino sul vestito nuovo, o sui capelli appena fatti dalla parrucchiera.
Avevo bisogno di riflettere, e lei abbarbicata al mio mento rifletteva con me, o meglio si rifletteva in ogni vetrina mostrandomi la sua presunta bellezza. “Scegli me mio caro, scegli me! Chi non ci ama non ci merita! Pensa al piacere di passare le tue dita intinte di crema profumata nella mia morbidezza! Sono la tua morbida foresta! (Tentava perfino le allusioni sessuali adesso!) Anzi di più, sono la tua bambina! La tua piccolina da cullare, da coltivare e nutrire. Sono l’unica cosa in te capace di crescere e andare avanti, là dove tutto è destinato a diminuire e arretrare. Lasciala perdere quell’invidiosa di tua moglie! Ha solo paura che tu sia troppo bello e attraente! È gelosa del tuo nuovo fascino, ecco la verità. Di più! È gelosa di me, del fatto che siamo sempre insieme e che mi carezzi più di quanto tu accarezzi lei. E poi mi sussurrò, oramai senza freni, ricorda che io sono la cosa più viva che tu abbia, perfino nella bara quando sarai morto e sepolto seguiterò a crescere per giorni! Io sono il tuo ultimo anelito di vita e di gioventù e debbi difendermi ad ogni costo!
Queste ultime parole risuonarono sinistre nelle mie orecchie. Mi guardai nella vetrina del macellaio, intravedendomi fra i pezzi di carne morta. Sembravo ad un tempo un santo anacoreta e il nonno di Heidy dei cartoni della mia infanzia. Se le avessi consentito di crescere ancora sarei divenuto un talebano della TV. Mi ricordo che pensai. “Io non sono la mia barba! Te lo do io l’arretrare!”
E avanzai verso casa con il preciso intento di compiere un delitto! “Sarebbe morta prima di me eccome la signorina!”
“Rifletti!” mi urlava lei. “Pensa a quello che fai, al tempo che ti è occorso per fami crescere. Cosa dirai al tuo barbiere?!”
Non l’ascoltavo più. Entrai in casa, mia moglie era già andata a lavoro. Infilai la spina del tosapecore, come lo chiamavo poco amorevolmente, impostai la macchinetta su 2 e detti il via al suo ronzio di calabrone. Fu un corpo a corpo durissimo, lei prima si oppose lottando aspramente, poi stremata cadde a mazzi, dilaniata, frammentata, nel lavandino. “Che soddisfazione!” Presi un pezzo di sapone e mi lavai via i peli residui. Alzai la pattumiera e passando la mano sulla mensola del bagno feci cadere centinaia e centinaia di euro di flaconi nel sacchetto risparmiando solo la spazzola da cinquanta euro, con la quale mia cognata pettina oggi Achille, il suo gatto siamese.
Poi mi guardai nello specchio sentendomi per un attimo improvvisamente nudo, flaccido, bianchiccio, un po’ spaurito, con la vergogna che mostrano certi cagnetti appena tosati. Mia moglie tornando dal lavoro non disse nulla, solo mi baciò sulle labbra con rinnovata passione. Non mi restava che uscire di casa. Lì mi attendevo che tutti, che il mondo intero, la mia vicina, il mio benzianaio, il farmacista, i colleghi di lavoro, mi domandassero ragione del taglio della mia prodigiosa barba. Invece niente, nemmeno i miei figli adolescenti sembrarono farci caso: come se non l’avessi mai avuta. Per loro che fosse lunga, corta o fossi del tutto rasato non aveva nessuna importanza. Molto probabilmente perché alla fine una barba o un taglio di capelli non fanno differenza e siamo quello che siamo, o forse perché le persone non si guardano, noi non ci guardiamo granchè, e se lo facciamo non c’importa poi molto della barba degli altri almeno che, gli altri, non siano la persona che amiamo.
Giorni dopo mia moglie mi abbracciò da dietro e mi passò una mano sulla barba un po’ più lunga del solito, a causa di un lavoro da finire e della mia solita pigrizia. Ebbi un vero e proprio sussulto, quando, con una voce da sensuale Salomé che non le conoscevo, mi sussurrò all’orecchio saggiando l’ispida mia barba in quella carezza: “Che fai, non vorrai mica farla ricrescere: quella puttana!”

Tutti i diritti riservati: Fabrizio Silei 2017

SOLDATINI di Fabrizio Silei

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Giovedì era giorno di mercato allora. A pensarci bene anche oggi è giorno di mercato il giovedì da quelle parti. Erano gli anni Settanta. Mia madre indossava un vestito a margheritoni gialli, si ravversava i capelli guardandosi nello specchio della toilette e poi mi prendeva per mano ed iniziava il mio calvario lungo tutta via Roma. Dio!, quanto mi sarebbe piaciuto vivere in piazza Matteotti, uscire e trovarmi nel bel mezzo del mercato. Ma no, niente affatto. Lì ci vivevano i signori e noi signori non eravamo. Noi abitavamo nel buco del culo del paese, fra gli operai, i pendolari e i muratori, proprio di fronte al distributore di benzina: nel cosiddetto Fondaccio. Da lì al mercato c’erano trecento metri, solo trecento metri, roba di pochi minuti a farli tutti di filata, ma lei no, lei doveva fermarsi a parlare con questo e con quello del più e del meno, di questioni assurde delle quali non mi importava un bel niente.
A dire il vero non so di cosa parlassero. Erano cose da grandi, il tempo che fa, il tizio che era morto, le bracioline impanate troppo dure, roba da piano di sopra. Io vivevo al piano di sotto, appeso alla sua mano, gli arrivavo si e no sopra la cintura. Adesso la smetterà di parlare, pensavo, e invece lei ci dava dentro da dio. Un talento naturale nel far lievitare i discorsi, nell’annodare la fine dell’uno con l’inizio dell’altro. Laddove sarebbe bastato un saluto, lei impiegava decine di minuti. Dopo un po’ io, desideroso di arrivare sul mercato, iniziavo a tirare la mano, che naturalmente era collegata al braccio e alla sua persona, sempre più forte. Ma lei niente, continuando a parlare contrastava la tensione tirando a sua volta, imperturbabile. Soffiavo, supplicavo, battevo i piedi, cercavo di liberarmi minacciando di proseguire da solo. Esasperata mi diceva di non fare così, di non essere uggioso, e tirava in senso contrario continuando beatamente il suo discorso. Per ora ero solo un moscerino fastidioso, da mettere a bada scuotendo appena la mano.
Santo cielo, dover aspettare da bambini il comodo dei grandi. Essere lepri e doversi fermare ad attendere le tartarughe. Da lì a poco la cosa mi mandava in bestia e la lotta si acuiva, come nei viedeogames, saliva di livello.
Mi lasciavo penzolare con tutto il mio peso cercando di staccarle il braccio e tiravo su le gambe dondolandomi appeso a quella sorta di liana. Ma lei niente, si chinava per farmi toccare terra scaricando il peso e seguitava a blaterare.
«Dai mamma, andiamo!»
«Aspetta un attimo, fammi finire un discorso.»
Il più delle volte era l’interlocutore ad avere pietà di me e a salutare. Ma ce n’erano alcuni, o meglio, alcune, che erano un vero flagello: erano come mia madre. Combinate con lei davano il via a una reazione di idrogeno ed ossigeno: un incendio inarrestabile, roba pargonabile al plutonio, pura energia atomica che trovava alimento in se stessa: briciole di fatti e di materia capaci di alimentare una reazione a catena di discorsi senza fine. Maledette!

Pochi attimi prima, tanti anni fa, mentre procedevamo sul marciapiede a passo svelto pregavo fra me: «Fa che non si incontri nessuno! Fa che non si incontri nessuno!»
Qualche volta andava bene, ce la cavavamo con una o due soste non troppo brevi, ma quando vedevo venire verso di noi Duilia, Iolanda, o qualcun’altra delle sue interlocutrici preferite, beh, mi sentivo morire. Dei giorni per arrivare al mercato potevamo impiegare anche due ore e mezzo. Alla fantastica media di un metro e mezzo ogni due minuti.
Caduto nella tela di quelle signore un muro colossale si ergeva fra me e il mercato fattosi improvvisamente lontanissimo. Allora, con le lacrime agli occhi immaginavo la gente con le buste e i fagotti che riprendeva la strada di casa, i commercianti che riponevano le merci e, disperato, giocavo la mia ultima carta, il terzo livello: la bizza maleducata.
Strattonando selvaggiamente quel povero braccio di madre ciarliera, iniziavo a piangere disperatamente e ad urlare:
«Andiamo! Dai andiamo!»
Se la cosa non sortiva alcun effetto, passavo senz’altro all’artiglieria pesante. Ciò mi avrebbe precluso la gioia di avere un giocattolo nuovo, ma almeno avrei avuto il mercato:
«Troia! Puttana! Andiamo, voglio andare al mercato!»
Gli interlocutori rimanevano sconcertati. Mi guardavano accigliati, e mia madre, colpita alla nuca da quelle parole che echeggiavano da parte a parte della strada era costretta ad occuparsi di me prima che tutto il paese si rendesse conto di quanto fosse ben educato il suo angioletto e riversasse il suo biasimo incondizionato su di lei. Costretta ad accomiatarsi anzitempo, vale a dire prima dello scoccare del giudizio universale, mi guardava minacciosa, ferita:
«Ora non ti compro nulla! Dire queste cose alla mamma! Ma stasera quando lo dico a i’ tu babbo! Vedrai! E poi di fronte a tutti! Bella figura che mi hai fatto fare!»
Finalmente! Vittoria! Gli scapaccioni che piovevano sulla mia testa erano confetti per la mia anima liberata. Il molosso si muoveva, il pachiderma riprendeva ad avanzare! Evviva!
«Fa che non incontriamo nessun altro! Fa che non incontriamo nessun altro!» pregavo dentro di me. Avevo vinto, forse il mercato non era ancora finito, forse avrei fatto in tempo a vederlo e a vedere il banco dei giocattoli del padre di Stefano: il mio migliore amico.
La rabbia di mia madre per le mie brutte parole e per la mia insistenza, svaniva come nebbia al sole una volta giunti sulla piazza del mercato. Un’altra madre sarebbe rimasta in eterno mortalmente offesa, ma lei no. Reduce da un suo mondo contadino e da un’infanzia fatta di astuzie e dispetti in cui tutto era possibile e permesso; una volta allontanatasi dagli occhi della gente, dimenticava subito, giacché per lei e per la sua anima di bambina, bestemmie, parolacce od altro non avevano in realtà alcun senso o valore. A ripensarci bene, oggi so che a procedere lungo quel marciapiede erano due bambini che si tenevano per mano. Poi io sono cresciuto e lei no: è rimasta la bambina di allora. La mia dolce bambina chiaccherona. Tenera, furba, indovina, maliziosa e birbante e al contempo ingenua e innocente come lo sono i fanciulli nei dipinti romantici.
Al mercato mi attendeva il banco dei giocattoli, per questo volevo arrivarci il prima possibile. Non avevamo soldi per i giocattoli, l’unica cosa che, dopo aver guardato questo e quello, mia madre poteva permettersi era una busta di soldatini militari verdi. Sempre lo stesso giocattolo, tutti i giovedì. Una ventina di soldatini di plastica verde del valore di una monetina.
Come un generale reclutavo il mio esercito rimpinguandolo ogni settimana con una nuova pattuglia. Ne avevo due fustini da detersivo Dash pieni. Quando li distendevo nell’andito del grande palazzo all’ultimo piano, lo riempivano quasi per intero. Altri ancora li nascondevo nei gerani e nei cactus come sentinelle a guardia di una gola o di un canyon.
Senza ombra di dubbio quei soldatini erano tedeschi, dovevano esserlo; adoravo i tedeschi e ero felice di averne un esercito così grande e sconfinato.
Non avevamo la televisione, la radio scassata gracchiava soltanto, ma mia madre sin da piccolissimo mi aveva sempre raccontato le storie della sua infanzia, della guerra e del passaggio del fronte.
Oh, dolce ricordo, in quei momenti la mia madre chiaccherona smetteva di blaterare a vanvera e diventava la principessa della narrazione: Orson Wells domestico, Stevenson a buon mercato… mi raccontava le storie della guerra e del passaggio del fronte. In quelle storie i tedeschi erano terribili e per questo li adoravo. Essi esercitavano su di me il fascino dei cattivi delle fiabe. Armati, organizzati, implacabili. Come potevo non ammirarli? La mia anima nera di monello si inebriava di quei racconti e sarebbero occorsi ancora decenni perché le cose tornassero a posto nel mio sentire. Eppure, già allora, non mancava nessun elemento per comprenderne la spietatezza. Il racconto che amavo di più non era quello del furto o della requisizione del maiale, né quello di mio zio piccolino che era stato salvato da un medico tedesco. Quello che amavo di più era quello dello speck, anche se a me occorsero anni per comprendere l’equivoco linguistico che lo generò e mia madre non credo abbia mai scoperto cosa quella sera il capitano delle SS cercasse in casa sua. Era entrato irato, urlando: “ Speck! Speck! Ich möchte Speck! Volere Speck!” Mia nonna costernata, aveva detto a mia madre ottenne di correre in camera a prendere lo specchio sopra il cassettone. Lei aveva obbedito di corsa e al suo ritorno aveva dato lo specchio al capitano che, trovandoselo in mano, in preda alla fame e all’ira, glielo aveva spaccato in testa.
Esilerante oggi, grandioso e immensamente crudele allora. Che a farne le spese rischiando di ferirsi mortalmente fosse stata la mia mamma bambina, non scalfiva minimamente la mia ammirazione per la mitica e irragionevole cattiveria teutonica.
Fui il generale di un’esercito grandioso e a buon mercato fino al giorno in cui Stefano, come ho detto il mio migliore amico e compagno in quel benedetto e splendente eldorado che ha la ventura di essere talvolta l’infanzia, non si presentò con una scatola di soldatini Atlantic dell’esercito tedesco finemente cesellati in plastica di prima qualità. Mi avvidi subito quando li dispose in formazione che differivano dai miei per più di un particolare. E non era solo una questione di rifiniture e di prezzo: le uniformi, le cartuccere, i mitra, gli elmetti erano proprio diversi.
Guardai la scatola finemente illustrata con indicazioni storiche, data, bandiera: Pattuglia della Wermach, esercito tedesco, 1943-1945. La bocca mi si asciugò istantaneamente e quasi tremante ne raccolsi uno confrontandolo con uno dei miei molto più grezzi e approssimativi e… com’ho detto, molto diversi.
Era una domenica mattina, mio padre che la guerra l’aveva quasi fatta e i tedeschi li conosceva bene per averci avuto a che fare dopo lo sbandamento, sedeva a tavola sonnecchiando con la grande testa poggiata in avanti sul tavolo. Non avevamo divani o poltrone allora. Lo riscossi: “Babbo, che soldatino è questo, di che esercito è?” gli domandai passandogli il soldatino di Stefano. Lo guardò a lungo, attentamente. Poi mi disse: “Questo è un tedesco, non v’è dubbio, erano proprio così. Uniforme, elmetto con la piega, pistolmachine, questi mitra, erano proprio così i tedeschi!”.
Per poco non caddi svenuto ai suoi piedi. Sperando che non fossero davvero stati proprio tutti così, gli passai il mio soldatino. L’esaminò con attenzione, poi disse: “Non so, certo non è un tedesco, lo vedi anche tu. Esercito italiano direi, forse americano!”
Non aveva finito di rispondere e già singhiozzavo, corsi via asciugandomi gli occhi. Stefano, in piedi vicino a me guardò mio padre e allargò le braccia senza capire. Nessuno poteva capire. Bocconi sul mio letto, il volto affondato nel cuscino piangevo di disperazione e giuro che seguitai a piangere per giorni. Il mondo mi era crollato addosso. Possibile che con una parola, centinaia di soldatini tedeschi, di fascisti canaglie e cattivi come piacevano a me, si fossero trasformati in americani o italiani buoni a nulla e mollaccioni? Fu il mio 8 settembre del 1943 e ne soffrii molto. Rammento che lasciai perdere i soldatini per lungo tempo, giocavo solo con i pochi e inequivocabili indiani e cow boy che avevo. Il mio glorioso esercito non era più lo stesso, aveva perso per sempre il fascino donatogli dalla sua supposta crudeltà.
Molti anni dopo avrei incontrato uomini veri, in carne ed ossa, a cui era accaduto lo stesso. Anziani reduci dai campi di prigionia, italiani che dopo l’8 settembre, in Grecia, Albania e nei territori occupati, una manciata di parole trasmesse dalla radio aveva trasformato in nemici. Tutti erano stai deportati in gran numero da pochi tedeschi con l’inganno e divenuti loro malgrado schiavi di Hitler, oppure, in rari casi, erano morti combattendo come a Cefalonia. Ad ascoltarli e raccontarli avrei dedicato un lustro della mia vita. 600.000 soldatini in molti poco più che ventenni, più di 60 – 80.000 fra questi non erano più tornati a casa. Tutti, vivi e morti, proprio come avevo fatto io da bambino con i miei soldatini voltagabbana, erano stati dimenticati dalla Storia in un fustino di detersivo. Ritrovarli fu forse il mio modo di farmi perdonare. Raccontarli un bisogno che non so spiegare.

Ho visto quelle foto

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Foto di F.Silei

Ho visto quelle foto. Avrei voluto non vederle, perché una cosa è sentire una notizia alla radio, come avviene oramai tutti i giorni, un’altra è vedere. Per questo, io che pure, a quasi cinquant’anni, di foto terribili ne ho viste tante, non riesco a postarle. Non ci riesco per la violenza che c’è nel mostrare tanto orrore. Non ci riesco, anche se ammiro il coraggio di chi le ha fatte (credo il cinereporter Nino Fezza), se condivido la rabbia di chi ha voluto mostrarle alla nostra indifferenza, al nostra assuefazione al male quando il male è, o ci sembra, degli altri. Stanotte ho sognato quelle foto. Un incubo, foto di bambini morti, gonfi, lividi e fradici, portati di notte dal mare freddo su una spiaggia come grosse conchiglie. Rannicchiati come ciottoli nella risacca del bagnasciuga, gli abiti mezzi, i calzoncini tirati giù, la maglia quasi sfilata dalla furia delle onde. Immagino chi li ha raccolti, prima di chiuderli nei sacchi. L’istinto di madre, la pena, con la quale i tardivi soccorritori avranno ravversato loro i capelli, ricomposto gli abiti per un senso, come si dice, d’umana, quanto oramai inutile e impotente, pietà. Bambini veri, come quelli che incontro ogni giorno della mia vita nelle scuole, per strada, al supermercato e che mi strappano sempre un sorriso per la loro dolcezza e unicità. Bambini come quelli per cui scrivo, che immagino ridere, riflettere, intristirsi, man mano che vado avanti con la storia. Lo spiritoso, il disturbatore, la filosofa… Ciascuno con il suo carattere, con il suo modo di sorridere, di litigare. Una vita così simile alla nostra, a quella dei nostri figli, da fare, stupidamente, assurdamente, per questo ancora più male, più rabbia. Sì, ho visto quelle foto… tanto più terribili perché non mostravano bambini degli anni trenta ridotti pelle e ossa oramai più di settant’anni fa in un lager, né bambini di etnie e costumi lontani che soffrono la fame come da anni oramai ci mostra la TV nel tentativo di suscitare la nostra pietà e chiederci un aiuto per questa o quella organizzazione umanitaria. No, niente di tutto questo, ho visto quelle foto e quelle foto mostravano i nostri figli. Gli stessi abiti, le stesse scarpe, gli stessi volti. Quelle foto mostrano il nostro fallimento e il nostro destino. Quelle foto ci dicono che i nostri bambini non sono al sicuro, che se domani dovessimo fuggire dall’orrore e dalla guerra per salvare la pelle, nessuno per quanto vicino verrebbe a prenderci, a soccorrerci. Che i nostri vicini alzerebbero muri di filo spinato. Che saremo costretti a partire di notte con la nostra famiglia su un gommone troppo pieno o chiusi a chiave in una stiva, a spendere i risparmi di una vita per poi affogare miseramente nel mare e, con noi, i nostri figli, i nostri bambini. Ho visto quelle foto, le ho sognate. Vedendole qualsiasi madre che abbia un figlio non può fare a meno di pensare che l’avrebbe preso lei piuttosto uno di quei bambini, una di quelle famiglie. Di rispondere a chi dice: “Se li porti a casa sua” e fomenta l’odio e l’egoismo di nuovo di gran moda in Europa: “Sì, me li prendo a casa mia. Mille volte me li sarei presi a casa mia prima di vederli così”. E, invece, abbiamo chiuso loro la porta in faccia, abbiamo fallito un’altra volta. Ho visto quelle foto e in quelle foto terribili l’Europa è un’espressione geografica, l’Onu una sigla da mandare a memoria nei libri di scuola, e noi… francamente, nonostante tutti i nostri gadget e i nostri lustrini, siamo dei disgraziati e ci dovremmo vergognare.

GRAZIE SINDACO

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Viviamo in uno strano mondo e sulla vicenda del sindaco di Venezia censore di libri per bambini e ragazzi accusati di minacciare la “famiglia tradizionale” è già stato detto tutto il possibile: disgusto per tanta ignoranza, appelli, allarmi sulla rediviva censura di stampo fascista, e così via. Con più o meno enfasi, tutte cose giuste. Ne manca una, un po’ controcorrente, da dire, ed è un grazie a questo sindaco bigotto, un grazie di cuore. Siccome non l’ha detto nessuno, lo farò io.
Grazie sindaco, perché il nostro lavoro, quello di raccontare storie ai ragazzi e all’infanzia, è un lavoro ingrato. Lo è tanto più in un Paese dove si legge poco, si vende poco e di quel poco tanta è paccottiglia e spupazzamento. È un lavoro ingrato tanto di più in un Paese in cui se si scrive pensando ai ragazzi o ai bambini si è considerati scrittori di serie B da tutti, a iniziare dai media e dai critici letterari.
Chi, come me, e come tanti colleghi, si sforza di non cedere al richiamo dalla platea dei soliti che urlano “Facce ride’!” e cerca di raccontare storie importanti, di non cedere alla vertigine del marketing, dei maialini, dei vampiri o delle mode del momento. Chi, insomma, cerca di raccontare le proprie storie con onestà e convinzione, storie per pochi, mi creda, spesso viene colto da un dubbio. Il dubbio di essere un’inutile goccia nell’oceano, e insieme a tanti colleghi un’innocua pioggerillina in un mondo come questo, dove tutto va velocissimo, dove grandi fenomeni di massa, films e videogames incidono profondamente sull’immaginario collettivo dei più giovani e su la loro visione del mondo. Insomma, per fare questo mestiere, per resistere, occorre serbare la patetica illusione che le nostre storie, anche se qualche volta incontrano poche migliaia di ragazzi, possano fare la differenza almeno per qualcuno, essere importanti almeno per qualcuno. La speranza che valga la pena farlo per continuare a resistere senza cedere alle sirene dell’appiattimento culturale. Del resto, le confesso che non saprei fare altrimenti: ognuno è ciò che è e fa ciò che fa, e dice quel che deve dire.
Per questo motivo volevo ringraziarla, perché lei ci ha ricordato, e l’ha ricordato ai cittadini italiani, che i libri sono “pericolosi” e sono importanti, possono fare la differenza e che quindi anche il nostro lavoro è importante.
Dietro l’indignazione di tanti colleghi censurati ho visto trasparire anche un sorriso stupito e taciuto: “Come?” diceva quel sorriso. “Censurato/a nel 2015? Ma allora le mie storie danno fastidio! Allora cavolo esisto! E lo dicevo io che valeva la pena liberarle!”
E poi grazie anche perché chissà quanti leggendo la sua lista sono andati a comperare quei libri!
Sì, grazie, perché i libri sono creature imprevedibili, non ha torto dunque a pensare, tentare, di metterli in gabbia. Il libro nella testa di molti conserva almeno questo, siccome è considerato strumento per comunicare il sapere, anche chi lascia i propri figli in balia di social network, tv, parolacce, improperi e soft-porno dilagante, quando trova una parolaccia in un libro per ragazzi è pronto a riscoprire il proprio moralismo e ad indignarsi. Con i libri non si scherza, il bambino, il ragazzo, legge e l’effetto è immediato. Se il libro parla di bulimia diventerà bulimico, se parla di Resistenza: comunista, se di gay: omosessuale! La teoria del messaggio colpo di pistola.
Per fortuna non è così, si rassereni, è impossibile capire qual è l’effetto di un libro perché le storie non servono a nulla e servono a tutto, sono, appunto, come ha ben scritto Patrick Ness, “creature selvagge” che non si possono ingabbiare, ma vanno liberate.
Infine mi è dispiaciuto non essere nella sua lista. “Non sono abbastanza importante, abbastanza letto, che non sia abbastanza sincero? mi sono chiesto. Su, per favore, legga meglio, vedrà che se il suo acuto consulente si impegna qualcosa troverà anche nei miei libri, le sarei veramente ancora più grato. Insomma, per parafrasare una celebre poesia di un certo Bertold Brecht, io glielo chiedo per favore, questo torto non me lo faccia: MI BRUCI!

L’occhio di Nerone

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Noi eravamo neri, ma lui era più nero di noi, la sua pelle sembrava d’inchiostro, così lo chiamavamo Nerone. Alcuni dicevano che al suo paese era stato uno stregone e che era meglio non guardarlo troppo a lungo se non si voleva rischiare che ci attaccasse il malocchio. Ma noi ragazzini che vivevamo nelle baracche e nei buchi scavati nel tufo sotto al ponte della grande autostrada, noi, sebbene lo temessimo, non potevamo distogliere gli occhi da lui. Il fatto è che era impossibile non guardarlo: indossava un logoro cappello a cilindro e un lungo cappotto con il collo di pelliccia anche d’estate e veniva a vendere la roba lì da noi. Il suo cappotto brulicava di pulci salterine e i capelli ricci erano tempestati di pidocchi, così era difficile distinguere gli uni dalle altre. Ma non era quello che ci interessava e non ci importava neanche della grande pistola che portava infilata nei calzoni a righe gialle e blu: tutti ne avevamo una. Quel che ci attraeva era il suo occhio di vetro, il malocchio appunto. Era quello che non smettevamo di guardare per tutto il tempo. Il vecchio Munvo, che aveva quasi quarant’anni, ci diceva di smetterla di guardargli quell’occhio di vetro azzurro perché se se ne fosse accorto ci avrebbe ucciso. Diceva che una volta lo aveva visto uccidere un bianco per quel motivo.
Tutte storie, pensavo io, Nerone era contento che glielo guardassimo perché sapeva che lo volevamo. Si sentiva invidiato ed era felice. Quando aveva perso l’occhio buono in una lite con i portoricani della zona bassa del fiume, era andato fino in città e un medico gli aveva asportato l’occhio vero irrimediabilmente ferito per mettergli quell’occhio di vetro d’un azzurro brillante e terso come il cielo.
Avremmo dovuto invidiare la sua roba, i soldi che ci faceva, e invece, come gatti storditi dalla benzina, continuavamo a farci di colla e a sragionare su quell’occhio di vetro e su quello che ci avremmo fatto se l’avessimo avuto noi. L’occhio del malocchio, l’occhio dello stregone che avrebbe realizzato ogni nostro desiderio.
Poggiato con la schiena a un vecchio furgoncino del gelato senza ruote di cui rimaneva uno scheletro di ruggine, Bastu disse agitando le mani come farfalle e sgranando gli occhi sorridenti:
«Se lo avessi io quell’occhio gli direi di portarmi qui Manolita e poi…» Non finì la frase e fu preso da un riso convulso ed eccitato che lo fece piegare in avanti fino a toccare con la testa per terra.
Anch’io aspirai dal sacchetto, sentii l’aria calda salire e bussare come un grande pugno compatto e invisibile oltre il mio naso e la mia fronte premendo direttamente sul mio cervello. Non so che mi prese. Sul cavalcavia, giù oltre il giallo grigiastro delle sterpaglie scorreva un treno di signori, di quelli che abitavano nella città vera, con i figli che andavano tutti i giorni a scuola e sembravano tante signorine. Pensai allora ciò che avevo pensato tante volte: se avessi avuto l’occhio di Nerone mi sarebbe piaciuto salire su quel treno, entrare nella città di cemento, scappare via per sempre dal tufo e dalla discarica di rifiuti che ci nutriva, per andare a scuola e imparare a leggere e scrivere. Così avrei saputo leggere cosa diceva il libro che avevo rubato rompendo il vetro di un’auto parcheggiata lungo la statale qualche mese prima. Lo sfogliavo la sera dentro il mio buco di fango mentre gli altri preparavano la cena scegliendo gli avanzi trovati fra i rifiuti. Non c’era neanche una figura ma lo sfogliavo lo stesso fino a che la rabbia per la mia impotenza mi costringeva a chiuderlo. Gli altri mi guardavano e ridevano beffardi. «Cosa fai, leggi? Cosa leggi?» Li odiavo quando facevano così. «Almeno io ho un libro!» Gli urlavo. «Voi non avete neanche quello!» «Che te ne fai di un libro se non sai leggere?» Ribattevano. Ma io non gli badavo e mi davo importanza: «Io ho un libro, può essere un libro di poesie o storie d’amore o d’avventura. Può essere un’altra vita o un libro di formule magiche!» Non avevo mai conosciuto mio padre e mia madre mi aveva lasciato lì prima di andarsene via con il suo grande amore che la picchiava tutte le sere.
Anch’io avevo un grande amore, ed era il mio libro. Se fossi andato a scuola avrei imparato a leggerlo e dopo avrei letto tutti i libri del mondo.
Così in quel pomeriggio polveroso che bruciava la gola e rivoltava lo stomaco per l’odore di copertoni bruciati che ammorbava l’aria, mi alzai risoluto e dissi:
«Bisogna prenderglielo. La prossima volta che torna lo uccidiamo e gli prendiamo l’occhio.»
Gli altri si fermarono impietriti e mi guardarono. «Non dirai sul serio?» mi disse Michelovic che era rosso e secco come un chiodo rugginoso e tremava all’idea di affrontare Nerone.
Gusman si mise a piangere e a ridere insieme e ad aspirare all’impazzata dal suo sacchetto di colla:
«Ci ucciderà tutti con la sua pistola. Tutti!» e rise, d’una risata grottesca che risuonò alta nel cielo, fra le volute di fumo nero, come una speranza.
«Sì!» dissi risoluto, meravigliandomi io stesso delle mie parole, «quando torna lo attireremo con una scusa fino al pozzo della vecchia centrale elettrica e lo uccideremo per prendergli l’occhio».
Angiò mi si avvicinò, mi sovrastava in altezza di quasi venti centimetri e ci teneva a decidere lui ogni cosa per essere il capo:
«Non crederai che sia davvero magico? Se lo fosse perché Nerone se ne andrebbe in giro pieno di pidocchi e fatto di crac come un cammello?»
«Forse perché non sa desiderare nient’altro. Ma io so cosa desiderare» dissi convinto. Avevo bisogno di credere in qualcosa.
Scosse la testa e rise di gusto. Poi si piegò lanciando un sassolino contro la fiancata del furgone dove era appoggiato Bastu.
Temendo che gli altri mi considerassero più coraggioso di lui disse: «E va bene. Lo uccideremo per prendergli l’occhio. E poi voglio chiedere all’occhio una grande cassa di Coca Cola e mangiare un pollo arrosto come quelli che fanno vedere alla tv.»
Rimasi fermo a guardare un enorme camion della spazzatura girare oltre la curva dietro la collina di ghiaia per svuotare il suo stomaco ai piedi di un’altra collina fatta di rifiuti, di topi grandi come gatti e di strida di gabbiani impegnati a combattersi a colpi di becco nell’aria livida.
«Andiamo, è arrivata la cena. Corriamo prima che i gabbiani e i bambini si mangino tutto.»
La settimana dopo gli altri non ci pensavano più, ma io sì e quando il piccolo Zandia corse con le sue gambe secche ad avvertirci che era arrivato al villaggio Nerone e stava vendendo il crac ai ragazzi più grandi, il cuore iniziò a battermi all’impazzata.
Munvo era arrivato a quarant’anni perché non si era mai fatto di crack o di colla, e così avevo deciso di smettere anche io. Smettere di sognare e di ridere come un ebete per sgombrare la mente dai rifiuti, come si sgombra un garage per far spazio a un camion. Quel camion, lucido e perfetto era il mio piano per prendere l’occhio di Nerone.
Avevo pensato a tutto per giorni e giorni e quando detti il segnale tutti corsero a mettersi al loro posto ed io corsi da Nerone. Attesi in disparte, cercando di non tremare e di farmi coraggio, finché non ebbe completato i suoi traffici, poi mi avvicinai e tirandolo per il pastrano lo costrinsi a voltarsi.
«Mi guardò quasi meravigliato che avessi osato tanto.»
«Cosa vuoi ragazzino? Vattene!»
«Ho un affare da proporti» dissi fissando il suo occhio di vetro. L’altro occhio scuro e brillante si agitava vacuo e minaccioso, ma era un nulla a confronto della sfera viscida e vitrea che mi contemplava dall’altra orbita.
«Tu un affare da propormi?» rise.
«Ho una cosa bella che può interessarti» dissi.
Si chinò fino a me e sentii il suo odore scorgendo le miriadi di pidocchi che camminavano su i suoi capelli da rasta. Mi porse l’orecchio mormorando: «Avanti, di che si tratta?»
«Oro» dissi. «Un bellissimo medaglione d’oro.»
Sorrise mostrando i denti gialli e mi abbracciò tirandomi in disparte e prendendo a camminare al mio fianco.
«Dove l’hai preso, dov’è? Fammelo vedere.»
Avevo pensato a tutto.
«Non ci crederai, l’ho trovato nella spazzatura. È incredibile quante cose i ricchi della città sempre ubriachi come sono, buttano con la spazzatura.»
«Avanti dammelo!»
«Non ce l’ho qui. L’ho nascosto» dissi fissandolo nel profondo azzurro incantato dell’occhio. «Tu però devi darci del crack e un po’ di soldi.»
«Certo, certo. Ma dammelo» insisté scuotendomi malamente.
«Non ce l’ho con me, l’ho nascosto, è qui vicino. Vieni con me e concluderemo l’affare».
Mi seguì malvolentieri, borbottando che non aveva tempo da perdere e minacciando di farmela pagare cara se non avessi davvero avuto l’oro.
Arrivammo nel posto concordato. Vidi la testa di Bastu sbucare da dietro una pompa in disuso e ritrarsi ma per fortuna lui non ci fece caso. Sperai che fossero tutti svegli e ben nascosti o per me sarebbe stata la fine.
Lo portai al centro del piccolo avvallamento e mi chinai ai suoi piedi scostando una pietra. Poi presi un medaglione di latta gialla di quelli che regalavano nei detersivi e che davvero avevamo trovato nella discarica.
Glielo porsi, l’esaminò appena e subito mi guardò incredulo. Poi risoluto lo lanciò via e si portò la mano al revolver per prenderlo e spararmi. Mi gettai a terra e gridai: «Ora!»
Alcuni secondi erano passati senza che succedesse nulla, strinsi i denti terrorizzato, poi finalmente, mentre il suo braccio si risollevava con la pistola in pugno, gli spari iniziarono a fischiare nell’aria. Lo sentii urlare e imprecare mentre i proiettili gli attraversavano il petto, e alla fine mi cadde addosso imbrattandomi con il suo sangue. Aveva anche l’altro occhio sgranato e mentre dalla sua bocca usciva una matassa di sangue brillante come vernice, lo sentii mormorare: «Perché?»
Tutti vennero fuori urlando eccitati e fatti di colla come cobra sbronzi, gli vuotarono le tasche, presero la droga, i soldi e Angiò prese la pistola, premette la punta della canna sotto l’orbita dell’occhio di vetro e lo estrasse soppesandolo nella sua mano. Disse malamente: «Voglio un pollo arrosto e della Coca Cola!» attese un attimo guardandosi intorno. Poi mi guardò sarcastico e mi disse: «È questo che volevi?» Ero a terra stanco, tremante, sfinito. «Sì, sì.» mormorai e lui me lo lanciò perché lo afferrassi al volo.
Felice e contento, imbrattato di sangue odoroso, con il vento fra i capelli, il mio libro nella tasca posteriore dei pantaloni e l’occhio stretto nella mano, corsi fino alla statale che portava in città.
«Voglio andare a scuola! Voglio andare a scuola!» gridai perché il mio occhio magico mi sentisse.
Al centro della mia mano, con tante piccole nervature azzurre, luccicò quasi per rispondermi e fu proprio in quel momento che comparve uno dei furgoni festonati delle suore della carità.
«Una zuppa calda e la parola del Signore!» mi disse una di loro e mi fece salire.
Salii stringendo il mio occhio nella mano e mi portarono con sé, mi lavarono, mi vestirono e mi mandarono a scuola.
«Lo sapevo» mi ripetevo in quei giorni guardando l’occhio di notte al caldo fra lenzuola pulite in una cella di convento di cemento. «Lo sapevo che eri magico!». E pensavo ai miei compagni che mi avevano visto sparire con l’occhio e non avevano saputo più nulla, come nei miracoli.
Studiai e pregai per giorni e giorni. No, non il loro dio che non valeva nulla, ma il mio occhio, l’occhio di Nerone che portavo in tasca, il fuoco rubato agli dei.
E così piano piano venne il giorno in cui potei leggere il mio libro, iniziai dal titolo affascinate e incomprensibile: «Campionario di ricambi odontotecnici.»

(Aprile 2008)

A PROPOSITO DI BUONI E CATTIVI E DI RACCONTI TROPPO… : LA LEZIONE DI STEVENSON

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Non so voi, ma io ne ho incontrate tante nella vita di persone stupende che improvvisamente si sono rivelate piene di odiosi difetti: egoiste, avide, approfittatrici o attente solo a se stesse. I soldi di solito sono un’ottima cartina di tornasole. Eppure hanno continuato ad essere persone stupende, da prendere conoscendone i limiti, perdonandole, appunto.
Fare lo scrittore, mettersi nei panni dell’altro, significa anche, sempre, inevitabilmente, assumersi un rischio, penetrare nella vertigine che ci dà raccontare il male, l’altro da noi, che inevitabilmente, in quanto tutti essere uomini, siamo noi. Occorre allora raccontare attingendo inevitabilmente al piccolo razzista che è in noi, al piccolo nazista, omofobo, misogino o intollerante che è in noi, all’alveo delle nostre piccole contraddizioni e debolezze amplificandole. Significa non fare sconti, non cedere ad ipocrisie, ma andare fino in fondo, cercare di capire chi siamo, come siamo e, terribile, come avremmo potuto essere in determinate, meno fortunate, circostanze storiche e famigliari o, dio ce ne scampi, potremmo diventare non appena ci mancasse un po’ di cibo. Non credo ai buoni e ai cattivi, sebbene esistano cattivi assoluti, quest’ultimi non servono granché nei romanzi. Lo scrittore “buono” che racconta il cattivo assoluto e stereotipato, dichiara tacitamente: non sono mai stato bullo, ingiusto, prevaricatore, non ho mai pensieri politicamente scorretti. Che infanzia ha vissuto costui? Con quale maschera va in giro a fare il santo profeta? Come può conoscere e raccontare la verità? Il più delle volte risulta falso come una patacca. Eppure, ogni volta che si osa, che ci si spinge più avanti nel tentativo di capire, c’è qualcuno che storce la bocca. Come se il male andasse raccontato sempre da lontano, come altro da noi puri, buoni, coerenti. Adoro, invece, assumermi il rischio di oltrepassare, di andare a vedere cosa c’è oltre la linea d’ombra e farci andare il lettore. Adoro la lezione di Stevenson, del suo Silver del quale non si capisce mai se sia affezionato veramente al bambino, un padre putativo come Stevenson stesso, o solo un opportunista che mira al suo tesoro. Stevenson lo fa fuggire con una parte del tesoro. È come se ci dicesse: Long John Silver sono io, argento, non oro, non sono perfetto, sono dottor Jekyll e mister Hyde come tutti voi, inutile far finta che non sia così. Lasciate che mi salvi perché nella mia salvezza c’è una parte della vostra. Per questo nei miei romanzi i cattivi veri (non quelli assoluti che sono lì a rappresentare il male allo stato puro) non sono mai completamente tali, sono sempre anche vittime e non trovano punizioni esemplari e definitive, ma sempre un’altra possibilità. Perché è quella che ciascuno di noi vorrebbe gli fosse data. Perché capendo cosa potremmo essere stati in circostanze diverse o divenire si può trovare la forza di perdonare e il coraggio di seguitare a fare del nostro meglio per essere tutt’altro.

LA SPESA

calo dei consumi“Ma non cara, vado io! Devo prendere anche una birra e qualche pistacchio senza sale per stasera!”
Sono contro gli stereotipi di genere e poi… il fatto è che mi piace fare la spesa. Ci vuole cultura per fare la spesa. Fare la spesa è come votare, una cosa seria.
Così sono andato a fare spesa al mio supermercato. Con la stessa auto, sempre quella. Anche se ogni tanto, sempre più spesso, penso che adesso ci sono auto con i sensori di parcheggio, alcune ti leggono l’SMS. Che buffe. Quasi quasi mi prendo un SUV. No, non vado mai per i boschi, poi si graffierebbe, ma alla mia età il SUV, fa così maschio. Maschio arrivato. Ray-ban e SUV, un binomio irrinunciabile.
Parcheggio, prendo il carrello. Lui mi si avvicina, sorride. È nero. “Cazzo ridi?” penso. Ma già, non ha problemi lui, è giovane, rifugiato o clandestino, niente tasse, niente moglie, figli da portare di qua e di là. La gioventù, che bella cosa. Che altro serve quando c’è? Ce l’avessi io!
Come? Un Euro? Faccio finta di non vederlo, di non sentirlo, come fosse trasparente. Che sfacciato. Ma la dignità, dico io, la dignità? E poi sarebbe bella dovessi dare un euro a tutti quelli che incontro! Fra un po’ sono più loro di noi!
“Loro di noi…” no, ma no che non sono razzista! Mi è scappato, sono di centrosinistra io. Sono mica un leghista stronzo io. Ho letto Brecht, Sciascia, ho studiato io! Avevo anche un amico gay. Poi ci siamo persi di vista. Non chiama mai: “Brutto frocio!” Si fa per dire, naturalmente, amorevolmente.
Quasi quasi mi sento stronzo. Mi vedo da fuori. Io che scappo, lui che abbassa gli occhi. No, non mi piaccio. Quasi quasi torno indietro e chiamo il ragazzo. Ragazzo, mica tanto, c’avrà 35 anni. Ho la mano in tasca, cerco una moneta, mi ostacola la chiave elettronica della mia Golf. Eccola. Torno indietro, non torno indietro? La palpo. Palpo la moneta senza tirarla fuori. Saranno cinquanta centesimi o un euro?
Cos’è che ha mormorato? “Fame, panino!” che paraculi. Tutti la stessa frase “Hanno tutti fame… fame di panino poi… fa neanche bene… ma come glielo spieghi?”.
Sì, adesso torno indietro, lo chiamo, gli sorrido, gli lascio cadere l’euro dall’alto nel palmo della mano. Mi dirà grazie capo. Io mi guarderò intorno per vedere se qualcuno mi guarda. Farò un gesto come dire, lascia perdere. Che bella figura se mi vedessero tutti. “Che bel democratico!” “Niente, niente!” dirò, “non mi ringraziare, una sciocchezzuola!” Bello, sì, ne ho bisogno, una questione di autostima. Ho deciso, lo faccio!
Mi volto, estraggo la mano dalla tasca. Faccio un passo verso di lui, è a cento metri che chiede ad altri, ci sono diverse persone, bene. Poi mentre mi avvio apro la mano, guardo la moneta.
“E no cazzo! Questi son due euro! E chi sono io, babbo Natale?!”
Rapido dietrofront. Inserisco la moneta e prendo il carrello. Che bello! Due euro di carrello che poi… si possono recuperare.
Basta pensieri. Pago le tasse io, tante… dovrebbe pensarci lo Stato. Non io… lo Stato…
Il supermercato mi fa star bene. È sempre lo stesso, è fresco, sempre pieno di merci. È una libidine. So come comportarmi qui. La frutta solo di stagione, meglio biologica, a volte perfino eco e solidale. Non bevo latte, non mangio carne, fa male, mi devo preservare. Per produrre una proteina di carne ne occorrono sette vegetali. E poi tutto quel dolore, poveri animali. Per questo tante nocciole, semi, banane! Fa bene! Ma cavolo… a tutto c’è un limite, sono mica una scimmia! Sono mica un pappagallo! Stasera vada per un bisteccone, che di un bel bisteccone non è mai morto nessuno. Basta non dirlo a nessuno. Sono vegetariano, fa tanto intellettuale. C’è una guerra in Africa, lo so, mi tengo aggiornato, compro sempre il giornale. Sospiro. C’è poco da fare. Ecco l’avocado, come mi piace l’avocado. Con i gamberetti poi. ZAC, nel carrello!
Dice che nel mediterraneo son tornati i dentici, erano spariti, non compro i dentici perché si nutrono dei cadaveri degli immigrati dei barconi, non compro neanche il persico perché ho sentito dire che in Ruwanda durante il genocidio gettavano i cadaveri nel lago, i persici ci si sono ingrassati. Niente dentici e niente persici! Che rigore morale! Quanto sono umano! Non li compro perché sono informato! Consapevole! Preparato. Meglio il salmone, colorato di rosso, al naturale.
Compro il baccalà. Sì lo so, si sta estinguendo, li catturano sempre più piccoli, come la storia del tonno pinne gialle. Che palle! Qualcosa si dovrà pur mangiare. E poi io sono trent’anni che compro baccalà, basta scegliere il più grosso e il problema è risolto.
Ah! Già i datteri, i datteri a colazione! Li adoro, zuccheri semplici, fanno bene, anche alla questione palestinese, credo. E poi le arance israeliane, per equità. E anche perché non ho ancora deciso da che parte stare. Fenomeno complesso. Fino a trent’anni dipendeva dalla figa con cui stavo parlando. Modestamente ero un mago nell’intuire se erano ebree o socialiste rivoluzionarie.
Questo ISIS è veramente preoccupante, per la cresima del bambino devo ricordarmi lo spumante. Non il prosecco di Zaia no! Così impara a fare la monocoltura! Guardo Report io! Non mi si coglie impreparato!
Ora però quel bel paio di scarpe mi guarda in un certo modo. Ho quarantadue paia di scarpe, è vero metto sempre le solite, ma intanto ce le ho. So che unendo la plastica delle suole delle scarpe di tutti gli abitanti della terra viene fuori un continente di scarpe di plastica che non ci saremo digeriti da qui a duemila anni. Una vergogna! So tutto, so che non sappiamo frenare, limitarci, adoro la decrescita felice, detesto il PIL come unico indicatore. Lo so il prodotto interno lordo non misura la felicità! Cazzo quante cose so! Che bel righino fosforescente però.
L’avessi avute negli anni ’70, quand’ero bambino, un paio di scarpe così. Andrea ce l’aveva, erano ricchi loro. Come è bello tenere questa scarpa in mano, una scarpa giovane, scattante, sportiva. Puzza di plastica ma, improvvisamente: come la desidero! Ma insomma, devo sempre salvare il mondo tutto da solo!? Sapete che vi dico? Me la merito, se la merita quel povero me bambino degli anni ’70 che andava in giro con orribili scarpe da mercatino rionale. Lavoro, guadagno, me le merito.
Centocinquanta euro… Azzo! Il ragazzo di prima, nel parcheggio, se li manda alla moglie ci compra una casa, lui qui ci vive tre settimane. Per forza, viviamo in una società multistorica, lui è là… anni 50 e io sono qua: 2014. Colpa mia? Postmoderno. Le provo. Come ci sto comodo! Le tolgo, mi guardo intorno come un ladro e le lascio cadere nel carrello. Tanto ho la carta di credito. Basta ricordarsi il PIN.
Via via veloce, che se mi viene da pensare al bambino indiano legato al telaio mi rovino la festa e addio scarpe. E poi non è vero è diffamazione… no la Nike, la Nike no!
Quaranta gradi quest’estate, riscaldamento del pianeta, come si rimedia? Mah, che posso farci io? Poco: Condizionatore e docce, tante docce.
“Fai veloce che manca l’acqua nel mondo!” Mi urla la mia compagna illuminata. È mia moglie, ma la mia compagna fa tanto alternativo. Ma che c’entra, le spiego, dimmi come può la mia acqua finire in Africa o dove manca, qui l’acqua c’è. Il problema vero non sono io, sono le tubature, sono rotte, le perdite, la sprechiamo, lasciami fare la doccia in santa pace! Risciaquo! Come cantava Gaber.
Trenta minuti di doccia per un pover’uomo che lavora… mi pare il minimo. Eccoci reparto shampoo, creme, pomatine, cotton fioc. Bisogna curarsi, volersi bene. Mi occorrerebbe un altro carrello. Poi devo passare in farmacia, ho un po’ d’ansia, e in erboristeria, dall’omeopata, dall’osteopata. Alternativo, ma con il rinforzino chimico perché deve funzionare. Ho un difetto, piccolo piccolo, quando soffro non so aspettare. Sì, devo ricordarmi di andare in farmacia e in erboristeria perché c’è già così tanto dolore nel mondo e anch’io… ho un inizio d’artrosi e non vorrei contribuire.
Passo di fronte alla libreria. Sospiro. Da quanto non compro più un libro? Una volta leggevo tanto, ora non ho tempo, mi addormento, ma ascolto la radio, guardo la TV… vado a teatro, al cinema. Un libro lo comprerò quest’estate al mare. Ne ho letti così tanti all’università. Adesso codice PIN e Zac, a casa.
Bestia che caldo nel parcheggio, l’auto sarà un forno. Davvero il mondo sta per finire, meno male che l’ipermercato è sempre uguale, sempre ben fornito, fresco, rassicurante, solidale.
Di nuovo tu, o almeno somigli a quello di prima.
“Come? vuoi il carrello?”
“Ma sai quanto ho speso, 300 euro di spesa! Sai quanto vale questo carrello, 302 euro!!”
“Ah! Non è una rapina? Lo vuoi vuoto… scusa…”.
“Anche vuoto però cavolo… sono sempre due euro…” penso.
La bionda mi guarda mentre prende il suo carrello. Magari pensa: “Guarda che spilorcio” o peggio “Che vecchio spilorcio!”
La guardo, le sorrido. Dico al ragazzo: “Prendilo pure!” e poi butto lì distrattamente. “Ci sono DUE EURO!”
Anche lei mi sorride. Un sorriso strano, tirato.
Il ragazzo ringrazia, cavolo quanto ringrazia, è imbarazzante. Continua. Che fa smette di già? Si allontana. Peccato. Ingrato!
“Quanto rompono questi negri, e lei gli dà anche i soldi!” mi dice, improvvisamente scontrosa la bionda.
“Brutta troia!” penso. “ Troia Razzista!” e chiudo la bauliera sdegnato. A proposito, la riapro. Un’ultima occhiata, mica è sparito nulla? Sapete nel parlare, nel guardare la bionda razzista che… , fra l’altro, non era nulla di che.”
M’è costata due euro. Puttana!
Esco dal parcheggio. “La vita potrebbe essere bella”, penso. “Se solo la gente fosse più… più come me… ecco tutto!”.
Scaricata la spesa la vicina mi dice che ha la mia posta, gliel’ha lasciata il postino. Che gentile. Come si vive bene nel mio quartiere. Una lettera dall’azienda. UNA PROMOZIONE? La apro, con mani febbrili. Leggo senza capire. Rileggo, ESUBERO, E-S-U-B-E-R-O!
Ma… deve esserci un errore, ma allora volete che mi incazzi, io non ho mai fatto una manifestazione, mai votato troppo a destra e nemmeno troppo a sinistra, ma adesso io mi incazzo! Devo fare la spesa io! C’ho la PS4 da comprare ad Enrichetto per la cresima, c’ho delle esigenze io, l’auto da cambiare, il mutuo da pagare! Ma alla mia età dove vado a lavorare? Ma io mi incateno ai cancelli, io salgo sulla torre di Pisa e minaccio di buttarmi giù. Non ne posso più di tutti questi stranieri, del governo, dei politici ladri, della disoccupazione, ho da fare la spesa, da andare al supermercato, sono un moderato, un laureato, chiedo così poco e voi adesso volete farmi questo?!!! Questo proprio a me! Attenzione perché mi avete proprio rotto le balle. Questo a me non me lo dovevate fare, io faccio una guerra, una rivoluzione, uccido, metto una bomba, faccio franare la nazioneeeee!!!!

Non oggi però, domani. Sono veramente incazzato, ma prima c’è la Juve in finale, me la guardo, mi rilasso, ci rifletto e poi domani… la rivoluzione a questi stronzi non gliela leva nessuno! Se perde la Juve poi, non vorrei essere nei loro panni! Domani gli faccio un post su Facebook che se lo ricordano finché campano!
Ecco che inizia. Respiro. Manca qualcosa. NOOOOOOO!!!!!
Cavolo, mi sono dimenticato la birra e i pistacchi.
Vita di merda!

CARLO, ovvero, la breve storia di un uomo che rideva troppo

A proposito del riso, un vecchio racconto di formazione che stasera mi piace pubblicare, e, purtroppo, una storia vera.

Carlo non so quanto valeva, probabilmente poco, una cosa è certa, la gente che lo faceva bere non valeva molto di più. Il fatto è che aveva una risata irresistibile, e più beveva più rideva. Sì, a pensarci oggi era solo un povero scemo che non faceva male a nessuno e che forse sarebbe ancora vivo se solo avesse riso di meno.
Gli altri erano tutte brave persone, la domenica potevi trovarli a bestemmiare di fronte alla chiesa in attesa dell’inizio della funzione; il resto della settimana lavoravano tutti ai campi o alle fabbriche e alla sera bevevano e giocavano a carte nell’unico bar del paese. Fra il fumo delle sigarette e le discussioni sulla partita crescevano quelle facce da dinosauri scolpite dalla noia e dalla fatica. Difficile che qualcuno ridesse, il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi e lì ognuno era impegnato a far la parte dell’uomo serio che sa il fatto suo, che ha il diritto di parlare quanto gli altri, perché anche lui conosce la vita e sa come vanno le cose: se si è troppo gentili, se si proferisce un sorriso di troppo, allora tutti capiscono che non vali niente, che di te ci si può prendere gioco e nessuno ti prende più sul serio.
Fra quell’ammasso d’uomini arrivava Carlo, col suo passo sciancato da ballerino zoppo e con la sua bocca grande pronta ad esplodere come una mina alla prima avvisaglia. Gli occhi straboccanti e scuri, già lucidi per il vino della sera e i capelli neri come quelli di un gitano o di un torero, col suo corpo secco e nervoso, avanzava dentro al bar salutando entusiasta chiunque incontrasse e proferendo il suo sorriso da fanciullo.
Nella sua mente semplice bastava un niente, una parola strana o un discorso canticchiato per far sì che scattasse il meccanismo che faceva scaturire la sua risata.
Una risata come non ne ho più udite, fragorosa e sonora, che sembrava procedere a singulti e udendola da lontano faceva pensare da prima ad una grande allegria e da ultimo al latrare rantolante di un animale ferito a morte che cerchi di far giungere fino al cielo la sua disperazione. Gli occhi gli si riempivano di lacrime e la bocca sgranata faceva emergere i suoi denti gialli che si spalancavano a tagliola intorno al buio della sua ugola rivolta verso il cielo. Gli astanti allora, superato il primo sconcerto, si divertivano a suscitarne ancora e Carlo nel vederli gioire si impegnava ancora di più in quelle sue risate travolgenti. Perché dio insieme alla stoltezza avesse dato un solo uomo tutto quel ridere, non ci è dato di discutere.
Come dei monelli annoiati che spavaldi si divertono a torturare un rospo intimoriti essi stessi dagli improvvisi disperati balzi di difesa rafforzati dalla sua agonia, così quei bravi padri di famiglia, sapendo Carlo privo d’ogni mezzo, si divertivano a pagargli da bere per sentirlo ridere di più. E nel riempirgli il bicchiere partecipavano insieme a quell’omicidio collettivo scaricando sul povero scemo tutta la loro rabbia e frustrazione. Tanto Carlo non contava, lui sorrideva e ringraziava, e se non si pensava da sé a difendersi in un mondo come questo chi volete che ci pensasse per lui. Tanto più che la colpa era di tutti e quindi di nessuno perché tutti avevano sorriso almeno una volta nel sentirlo ridere e se qualche volta una madre di passaggio aveva osato rimproverare quegli uomini adulti e compatire quel poveretto, l’aveva certo odiata più Carlo degli altri perché mormorando scuse o dicendo è lui che vuol bere, tutti si erano dileguati e l’avevano lasciato solo e a bocca asciutta.
Accadde una sera d’inverno, era nevicato e la luna aveva ghiacciato la strada, non so se fu la noia più fitta o la rabbia per il freddo e per le colture andate in malora. So solo che insieme, senza neanche troppo sforzo, mentre gli mescevano da bere e lo spronavano a ridere confondendolo con discorsi di donne, lo convinsero che in un paese poco lontano c’era una gara quella sera dove chi rideva più forte vinceva un sacco di soldi e forse anche l’amore di una donna.
Carlo partì con un vecchio motorino che non usava quasi mai, gli uomini ridacchiando lo salutarono sotto la neve, qualcuno più anziano gli disse di non andare, che era tutto uno scherzo ed era pericoloso, ma Carlo non volle credergli, partì e gli altri ridendo della loro beffa rientrarono al caldo per un’altra birra e una partita a carte. Qualcuno rise ancora del loro bel raggiro quella sera intorno al biliardo. Poi la mattina dopo lo trovarono morto: il motorino era scivolato giù per un burrone ad una curva, Carlo si era schiantato contro un salice lungo la scarpata.
Nessuno commentò la notizia, al bar fu come se non fosse mai successo niente, che la colpa in questi casi è sempre del destino, e da quel giorno non ebbero più i suoi sorrisi e la sua risata ad aiutarli a morire.

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